Editoriale

FORZE DI POLIZIA: CHI PORTA UN’ARMA CON SÉ NON PUÒ NON SUBIRE CONTROLLI PSICOLOGICI

(di Vania Lucia Gaito) – Ieri parlavo con un’amica che lavora in polizia. E a un certo punto mi è venuta una curiosità. E gliel’ho chiesto: “Scusa, ma ogni quanto tempo voi delle forze dell’ordine venite sottoposti a visita medica e controllo psicologico o psichiatrico?”.

Lei mi ha guardato stupita. Come se avessi chiesto chissà cosa. “Noi? Mai”.

Mai? Ma come, mai?! A me chiedono di fare controlli psicofisici ogni 10 anni anche solo per guidare una normale automobile, e a te, a cui danno un’arma in dotazione, non ti controllano mai?

“Che devo dirti? E’ così. Una volta che hai superato i test d’ingesso, la visita medica e tutto il resto, non siamo obbligati ad alcun controllo”. Si ferma un attimo a riflettere. “Beh… a meno che il dirigente non lo richieda specificamente. A seguito di qualcosa di veramente serio, grave. Ma ci sono i sindacati, sai. Se la cosa non è veramente grave, nessun dirigente si piglia la briga. Magari vieni accusato di mobbing”.

“Ah”.

Perché tutto quello che mi viene da dire è questo. Possibile mai? Ma se a me, solo per il porto d’armi per il tiro al piattello chiedono il rinnovo ogni sei anni, previo accertamento medico-psicologico, com’è possibile cheuna persona autorizzata a portare un’arma sempre con sé non sia controllata mai? Che so, la vista, per dire. I riflessi. La condizione psicologica.

Perché chi porta un’arma sa di avere più potere di chi non ce l’ha. E se hai a che fare con una personalità fragile o psicopatica, che magari i test psicoattitudinali li ha fatti quindici anni fa, è un attimo scivolare nel senso di onnipotenza. Non lo dico mica io, lo dicono le statistiche. L’8,5% dei femminicidi sono commessi da esponenti delle forze dell’ordine. Gente che la pistola la dovrebbe portare per servire il Paese e tutelare la giustizia, non per fare il Charles Bronson contro la moglie e i figli.

E invece no. La tutela del cittadino vale meno della tutela dell’intoccabilità del lavoro di un poliziotto, di un carabiniere, di un vigile urbano (ché da un po’ sono armati pure quelli). E, per esempio, da un punto di vista legislativo, il tutto si riduce a te righe, art. 64 del D.P.R. 28 ottobre 1985 n. 782: “Fermo restando quanto previsto dall’art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1983, n. 904, per l’impiego in particolari settori di attività, il dipendente può essere sottoposto ad accertamenti psico-fisici ed attitudinali”.

Può. Non “deve”. Può. Con tutto quello che ne consegue. Fino a fatti eclatanti. Che però destano scalpore per qualche giorno e poi finiscono nel dimenticatoio, rimpiazzati da nuovi fatti di cronaca, nuovi motivi di raccapriccio, nuovi bruciori di indignazioni momentanee.

Per quale motivo il periodico controllo dello stato di salute fisica e mentale di chi fa parte delle forze dell’ordine non è contemplato, previsto, normato, quando non è addirittura osteggiato? Non sarebbe invece normale e sano? Se non sei nello stato fisico o psicologico di portare una pistola, forse non è opportuno che la porti. Per la sicurezza di tutti. Forse è il caso che resti a far lavoro d’ufficio. Disarmato.

Serve anche a ridimensionare il senso di onnipotenza e di supposta impunità che una mente vacillante può facilmente pensare di avere per l’appartenenza al Corpo. Che del resto esista una “sostanziale omertà di corpo” non lo dico neppure io, lo dice Donatella Delle Porta, dell’Istituto universitario europeo. Dati statistici sui reati commessi dalle forze dell’ordine? Non disponibili. Se esistono, il ministero degli Interni li tiene segregati. Dalle notizie di cronaca, nel 2014 erano circa un centinaio gli agenti indagati, rinviati a giudizio o condannati per reati, dal furto aggravato allo stupro.

Ovviamente, non è neanche previsto un osservatorio in merito. Osteggiato anche quello. Forse se ne riparlerà al prossimo stupro, al prossimo omicidio, alla prossima strage. Forse. (Il Fatto Quotidiano)

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