Carabinieri

VIOLENZA IN CASERMA: LA STORIA DI UNA CARABINIERA SARDA

di Morena Deriu per la Donna Sarda

Tutti dovrebbero sentirsi al sicuro sul posto di lavoro, soprattutto se preposto a garantire il rispetto delle leggi, delle persone e delle istituzioni. Non è stato così per Stefania, carabiniera in un centro della Barbagia, per mesi oggetto delle “attenzioni” di un superiore tra le mura della caserma. Poi, una sera Giorgio è passato ai fatti. Stefania lo ha denunciato, lo ha visto assolto nell’udienza preliminare e finalmente condannato in Corte d’appello.

È la sera del 3 febbraio 2012. Stefania ha concluso il turno e si aggira tra i corridoi della caserma alla ricerca di un collega. Indossa una gonna e un pantacollant. «Come sei vestita? Dove stai andando?», le chiede Giorgio. Lui è un appuntato, lei una carabiniera semplice. Stefania si allontana senza rispondere.

Giorgio non è nuovo alle provocazioni. Negli atti dei processi si leggono le dichiarazioni di colleghi e superiori, testimoni per mesi delle avances. Solo dieci giorni prima, davanti a un maresciallo, «l’aveva afferrata per un braccio cercando di tirarla verso di sé e dicendole che se non fosse stato per la moglie sarebbe scappato con lei».
Un collega ricorda una notte in cui si trattenne oltre il turno: «Non mi sentivo tranquillo a lasciarla da sola con l’appuntato… che, benché avesse concluso il suo turno, non faceva rientro presso l’alloggio di servizio». E continua: Giorgio «si era trattenuto per più di un’ora in sala d’aspetto fissandola in silenzio, tanto che la collega [Stefania, ndr] gli aveva chiesto di non lasciarla sola».

Il 3 febbraio a Giorgio commenti e provocazioni non bastano. Lascia la stanza dove Stefania ha cercato il collega e la raggiunge tra due corridoi. «Qui mi prendeva alle spalle cingendomi i fianchi con le sue mani e sfiorandomi il seno con la sua mano destra. Appoggiava il corpo sulle mie spalle dicendomi ripetutamente “dammi un bacio”. Io mi coprivo il viso con le mani chiedendo aiuto … mentre cercavo di divincolarmi venivo baciata due volte in testa e mentre l’appuntato … mi baciava, io ero piegata in avanti e lui era completamente attaccato alle mie spalle», si legge negli atti dei processi. Di quei momenti restano la «gonna che indossava quella sera, che presentava una scucitura di circa 10 centimetri in corrispondenza dello spacco posteriore, ed un paio di pantacollant bucati sul ginocchio destro».

 

La prima sentenza arriva il 4 marzo 2014. Giorgio è accusato di violenza sessuale con abuso di autorità. Racconta che Stefania avrebbe fatto una piroetta chiedendogli se gli piacesse. Poi lui l’avrebbe raggiunta e tutto si sarebbe concluso con «uno scherzo», se non fosse stato per la reazione di lei, che avrebbe cercato di colpirlo con un calcio. Una «strategia difensiva … all’evidenza fallimentare», si legge nella sentenza dell’udienza preliminare. La ricostruzione di Stefania è, infatti, confermata da un appuntato, testimone oculare.

Eppure Giorgio è assolto: «Il fatto non costituisce reato». È stato «la manifestazione di quello stesso atteggiamento molesto, degradante, irrisorio e francamente maschilista che aveva assunto fin dall’inizio», ma «potrebbe non essere stato intenzionale». «In testa, ad esempio, si baciano i bambini», recita la motivazione del Gup.

Stefania ricorre in appello, su proposta del Pubblico Ministero. Intanto Giorgio, in un’intervista rilasciata a L’Unione Sarda, ribadisce la propria «fallimentare» versione dei fatti. Racconta come e quanto la sua vita siano state rovinate da «una stupidaggine che però si è trasformata in un problema gigantesco». «Per colpa di questa storia ho perso il lavoro e il mio matrimonio è andato in frantumi». Stefania, invece, è sempre una carabiniera.

Con la sentenza del 19 gennaio 2015, la Corte dichiara l’appello fondato e afferma la colpevolezza dell’imputato con l’aggravante dell’abuso di autorità. Lo condanna a «un anno e otto mesi di reclusione, da ridurre di 1/3 per la scelta del rito abbreviato … e al pagamento … di una provvisionale di 10000 euro entro il limite dell’apprezzamento equitativo del danno morale», ma «a oggi non sappiamo se riusciremo a ottenere qualcosa di questa somma», dichiara l’avvocato Alberto Cocco Ortu, rappresentante di Stefania.

Il 13 aprile 2016, il successivo ricorso di Giorgio alla terza sezione della Corte suprema di Cassazione è dichiarato «inammissibile» e lui condannato «al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1,500 in favore della cassa delle ammende».

Dopo un’iniziale sentenza a sfavore, la legge ha riconosciuto in Stefania una vittima di violenza sessuale. Per mesi ha vissuto in un contesto fatto di «abituali atteggiamenti molesti … che tradivano palesemente la natura sessuale dell’interesse … per la giovane donna, che non li gradiva affatto e cercava di evitarli in ogni modo», si legge nella sentenza della Corte d’appello.

Una storia a lieto a fine? Forse. Perché dopo tutto sembra restare una domanda: si doveva proprio arrivare a quel 3 febbraio prima che qualcuno movesse un dito per mettere fine a quegli «abituali atteggiamenti molesti»?

I nomi di Stefania e Giorgio sono di fantasia.

 

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