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Un appartenente alle Forze Armate o di Polizia può iscriversi all’albo forense degli avvocati?

La questione dell’iscrizione tra i praticanti avvocati di soggetti che svolgano al momento funzioni di pubblica sicurezza è stato oggetto di numerose pronunce dal parte del Consiglio Nazionale Forense. Sul tema sono, infatti, intervenuti diversi pareri fin dall’anno 2000.
Orbene, ad essere incompatibile con l’esercizio delle funzioni di praticante avvocato non è la condizione di pubblico dipendente, quanto piuttosto lo status particolare cui è sottoposto l’agente e l’ufficiale di pubblica sicurezza. Su tali soggetti, infatti, grava un dovere di intervento ed un obbligo di denuncia di fatti comunque appresi che non può ritenersi conciliabile con il dovere di riservatezza cui è tenuto il praticante avvocato. Non a caso infatti, similmente ai doveri che incombono sull’avvocato, anche il regolamento che disciplina la pratica forense afferma che la pratica debba essere svolta con “…assiduità, diligenza, dignità, lealtà e riservatezza” (art. 1, D.P.R. 10 aprile 1990, n. 101). L’obbligo di riservatezza, in particolare, presenta profili di indubbia problematicità, ove si consideri che, ad esempio, l’ispettore di P.S. ha comunque l’obbligo di rapporto, cioè il dovere di informare immediatamente i superiori e l’autorità giudiziaria competente qualora dovesse venire a conoscenza, per qualsiasi ragione, di una notitia criminis.
A ciò si aggiunge che nell’ordinamento delle forze di polizia, a carattere militare e non, sono presenti elementi di subordinazione gerarchica di entità tale da non poter essere compatibili con l’indipendenza necessaria allo svolgimento di attività forensi. Per quanto esposto la tutela dei fondamentali doveri di segreto professionale e di fedeltà al cliente impongono di negare l’iscrizione dell’appartenente alle forze dell’ordine nel registro dei praticanti.
A nulla rileva l’esistenza di un’autorizzazione allo svolgimento della pratica forense, concessa da parte dell’amministrazione di appartenenza ai sensi dell’art. 53 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, atteso che detta autorizzazione è necessaria a tutelare l’interesse della P.A. a che il pubblico impiegato sia al suo esclusivo servizio e non percepisca compensi da terzi senza previo assenso dell’ufficio di appartenenza. Al contrario l’incompatibilità tra lo status di appartenente alle forze di polizia e la condizione di praticante avvocato scaturisce dalla necessità di tutelare il libero esercizio della funzione giudiziaria e dei diritti di difesa, che si collocano all’evidenza su di un altro piano.

Va, tuttavia, segnalata la presenza di un diverso orientamento giurisprudenziale, che ritiene il rischio di un “conflitto di appartenenza” limitato, e rimediabile con accorgimenti pratici, quale ad esempio la limitazione della pratica agli affari esenti da commistioni (ad esempio chi dichiari che espleterà pratica legale soltanto in materia civile e/o amministrativa). Detta giurisprudenza ritiene, inoltre, che la pratica legale svolta dai predetti agenti o funzionari di P.S. possa mantenere una propria ragione anche se ad essi è preclusa la successiva iscrizione nell’albo, poiché dovrebbe esser data loro la possibilità di “precostituirsi” un titolo professionale per eventuali scelte professionali future (si veda, in tal senso, la sentenza Cass., sez. un., 26 novembre 2008, n. 28170).

Una formulazione prevista dalla Cassazione, secondo molti esperti del settore in contrasto con una pluriennale prassi contraria. A tutto ciò si aggiungerebbe la considerazione che la pratica forense non può essere limitata ad alcune materie ma dovrebbe riguardarle tutte.
In conclusione, secondo il Consiglio Nazionale Forense un dipendente dell’Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato ovvero della Guardia di Finanza o comunque un Ufficiale di P.G. non può essere iscritto nel Registro Praticanti proprio in funzione del rapporto con la Pubblica Amministrazione.

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