Polizia

Renato Cortese, il poliziotto che catturò Provenzano a capo dell’ufficio ispettivo del Viminale

Prima ancora che con la nomina – decisa ieri dal Consiglio dei ministri – di direttore dell’Ufficio centrale ispettivo del ministero dell’Interno, il riscatto era arrivato con il conferimento della cittadinanza onoraria di Palermo. Per Renato Cortese, il poliziotto che aveva visto la carriera interrotta per una brutta pagina di storia giudiziaria, è stato quello il vero risarcimento morale ricevuto direttamente dalla città dove ha speso gran parte della carriera, e di cui era diventato questore, rimosso nel 2020 dopo una sentenza di condanna. Considerata da quasi tutti (a cominciare dagli stessi vertici della polizia) un po’ surreale; ma sempre di sentenza si trattava, sia pure di primo grado, e andava rispettata.

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A giugno di quest’anno è arrivata il verdetto d’appello: assolto «perché il fatto non sussiste» dal presunto sequestro di persona nei confronti di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako espulsa dall’Italia nel 2013 dopo un controllo della polizia che cercava (e non trovò) il marito per eseguire un mandato di cattura internazionale. Cortese e gli altri imputati – tra cui Maurizio Improta, anche lui rimosso dal precedente incarico dopo il primo verdetto e in seguito all’assoluzione nominato questore di Trento – hanno visto così riconosciuta l’innocenza sempre reclamata in una vicenda dove la ricostruzione dei fatti era malferma e il possibile movente mai acclarato.

Ora anche l’amministrazione di competenza ha «rimesso in carreggiata» il percorso del poliziotto che non solo nel 2006 ha catturato Bernardo Provenzano, il boss mafioso dalla latitanza record durata 43 anni, ma ha dedicato gran parte della sua attività al contrasto alla criminalità organizzata. Cominciando proprio dalla Sicilia e da Palermo dove arrivò nel 1992, appena ventottenne, all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Con i capimafia tutti in libertà, in una città paralizzata dalla paura e dalla convinzione che – trucidati Falcone e Borsellino – nessuno sarebbe stato in grado di liberarla dal giogo di Cosa nostra. Cominciò dall’impiego sulle Volanti, il lavoro di Cortese, ma ben presto fu dirottato sulle caccia ai ricercati, con indagini sempre più complesse e “tecnologiche”, sfociate in arresti importanti: da Giovanni Brusca (il «boia di Capaci») a Pietro Aglieri, il «padrino» che in casa aveva allestito un piccolo altare per celebrare messa; da Gaspare Spatuzza, il «colonello» dei fratelli Graviano che da pentito riscriverà la storia delle stragi, fino – appunto – a Provenzano. Successi che hanno contribuito a sconfiggere quanto meno il mito dell’incrollabilità della mafia, e che hanno portato Cortese a dirigere la Squadra mobile di Reggio Calabria, in un periodo in cui il contrasto alla ‘ndrangheta ha ripreso vigore dopo la strage di Duisburg (2007) che aveva mostrato al mondo intero il potere raggiunto da quell’organizzazione criminale.

Da lì, seguendo una ideale «linea della palma» simile a quella evocata da Leonardo Sciascia, Cortese è sbarcato a Roma, prima dirigente della Mobile (con indagini che hanno svelato le diramazioni ‘ndranghetiste e mafiose nella capitale) e poi al vertice del Servizio centrale operativo, l’ufficio che coordina le più importanti indagini della polizia in tutta Italia.

In seguito è arrivata la nomina a questore di Palermo, che era per lui la chiusura di un cerchio. Spezzata da quell’accusa di sequestro di persona che avrebbe organizzato nel 2013 (quando guidava la Mobile di Roma), senza però che né l’inchiesta né il processo di primo grado avessero individuato i mandanti né le ragioni di un simile reato. Per il quale l’accusa, nel corso del dibattimento svolto a Perugia a causa del coinvolgimento di una giudice di pace romana (anche lei condannata in primo grado e assolta in appello) chiese una pena minima e quasi incongrua per un rapimento. Il tribunale invece andò oltre, con la condanna a cinque anni di reclusione che però non ha retto al dibattimento di appello, dove sono stati ascoltati i testimoni citati dalla difesa che in primo grado erano stati rifiutati. Adesso, dopo due anni di «limbo» e dopo che Palermo l’ha inserito ufficialmente tra i suoi “ì«cittadini onorari», la carriera di Renato Cortese ricomincia il corso. Aprendo un altro cerchio.

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