Prosciolto dopo accuse devastanti, agente torna in servizio con orgoglio: «Entrerò a testa altissima»
Undici chili persi, notti insonni, psicofarmaci, nervi a pezzi. Un anno da incubo per un agente penitenziario accusato ingiustamente di abuso d’autorità e falso in atto pubblico. Ora il proscioglimento: «Il fatto non sussiste». Una ferita profonda, ma la divisa è ancora lì, simbolo di un sogno da onorare.
Un assistente capo ridotto all’osso dalle accuse: «Sono crollato psicologicamente»
Perdere 11 chili, finire in ospedale, iniziare un percorso psicologico e assumere farmaci per dormire: non è il profilo di un criminale, ma la testimonianza della devastazione personale vissuta da un assistente capo della polizia penitenziaria in servizio dal 2011 a Ca’ del Ferro, accusato di avere picchiato un detenuto psichiatrico e falsificato una relazione di servizio. Un’accusa che rischiava di travolgerlo sul piano penale e professionale. Ma oggi, dopo mesi di calvario, è arrivato il verdetto: prosciolto perché il fatto non sussiste.
Una denuncia dall’alto e un’inchiesta con gravi lacune
Il poliziotto, originario di Salerno, 40 anni, ha sempre sostenuto la sua innocenza. Il suo avvocato ha sottolineato come il suo assistito fosse in una “situazione devastante” e che le accuse, in particolare quella di falso, avrebbero potuto portare persino al licenziamento. Tutto nasce da quanto accaduto l’11 maggio 2023.
Mentre era in servizio, l’assistente si trova ad affrontare un detenuto psichiatrico e ubriaco, che gli sputa in faccia e lo insulta. Il tentativo di contenerlo degenera: il detenuto tenta di uscire dal reparto, aggredisce verbalmente e fisicamente gli agenti. Il contenimento avviene nel vano scale. Il risultato? L’agente si rompe legamento e tendine del pollice ed è costretto a un intervento chirurgico.
La denuncia del comandante e un’indagine a senso unico
A ottobre 2023, la svolta: il comandante del carcere lo denuncia per aver mentito nella relazione e per aver aggredito il detenuto. A detta dell’assistente, durante l’indagine interna non è mai stato ascoltato. Lo è stato invece il detenuto, che ha confermato di aver avuto un atteggiamento ostile, ma ha anche dichiarato di non essere stato toccato.
Eppure, la macchina giudiziaria si mette in moto. Gli atti finiscono nelle mani dei carabinieri di Milano. Le accuse poggiano su filmati della telecamera 5. Il comandante li visiona e ritiene di vedere un pestaggio. Ma il difensore, che ha analizzato i frame almeno sette volte, smonta l’accusa pezzo per pezzo: «Non si vede nulla», afferma.
Una verità difesa con coraggio: «Non ho mai abbassato la testa»
L’avvocato , nella sua memoria difensiva, chiarisce che nel gergo degli agenti penitenziari, “contenere nelle scale” significa accompagnare con forza verso una direzione, non aggredire. Il detenuto, infatti, non aveva alcun diritto di essere fuori dalla cella, era in stato alterato, e il suo comportamento rappresentava un rischio.
Alla luce di tutto ciò, il GUP ha prosciolto l’assistente capo, dichiarando che il fatto non sussiste. Per l’agente, questo significa solo una cosa: riprendere in mano la sua vita e tornare in servizio a testa alta, già da lunedì prossimo.
Una divisa come missione: «Era il sogno di mia madre»
Nonostante l’anno terribile, l’assistente non ha mai rinunciato alla sua identità: «Ho continuato a lavorare a testa alta, perché sapevo di non aver fatto nulla». La divisa, dice, è più di un lavoro. È un’eredità affettiva: «Era il sogno di mia madre, mancata quando ero piccolo. Mi diceva sempre: ‘Io ti vedo con la divisa’». E così è stato.

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