Leva, nostalgie e realtà: perché l’Italia (per ora) non può permettersi di rispolverare la naja
Parlare di leva obbligatoria significa prima di tutto ricordare la Legge 226/2004, la cosiddetta “Martino”, che ha sospeso dal 1° gennaio 2005 ogni chiamata di coscritti in Italia. Il servizio rimane teoricamente attivabile in stato di guerra, ma nel frattempo caserme sono state dismesse, quadri di istruttori ridotti e l’Esercito si è professionalizzato. Qualsiasi ipotesi di “ritorno alla naja” imporrebbe di riaprire infrastrutture, riassumere formatori e rifornire arsenali: un piano che richiederebbe miliardi di euro e anni di lavori, mentre il bilancio Difesa è già vincolato da programmi ad alta tecnologia.
Il piano degli Alpini: dal fango alle emergenze hi-tech
Ben diversa è la proposta dell’Associazione Nazionale Alpini, che punta a creare un Corpo Ausiliare Alpino inserito nella Protezione civile più che nelle forze da combattimento. Il progetto, nato da un protocollo con lo Stato Maggiore nel 2017, potrebbe immettere forze fresche accanto agli oltre 13 mila volontari e ai più di 400 mezzi operativi di cui l’ANA già dispone, compreso un ospedale da campo modulare trasportabile in elicottero. La logica è semplice: formare giovani in montaggio tende, logistica, uso di droni per la mappatura post-disastro, lasciando i compiti di difesa ai reparti professionali.
I partiti (quasi tutti) frenano, Crosetto alza il cartellino rosso
Il ministro della Difesa Guido Crosetto lo ha detto senza perifrasi: «Sei mesi in caserma non cambiano i giovani; abbiamo bisogno di professionisti, non di coscritti». Un messaggio che trova d’accordo gran parte della maggioranza e delle opposizioni. Il Pd ricorda che “dai droni alle guerre ibride servono soldati sempre più tecnologici”, mentre Forza Italia, per voce di Maurizio Gasparri, definisce l’operazione “incompatibile con i costi e l’organizzazione dello strumento militare moderno”. (lastampa.it)
La voce degli ufficiali: addestrare non è uno stage
Secondo il generale Giorgio Battisti, già comandante delle Truppe Alpine, la guerra russo-ucraina dimostra che «per rendere operativo un soldato occorrono almeno quindici mesi di addestramento continuativo». Ridursi a semplificazioni di pochi mesi – avverte – significherebbe mandare in prima linea personale inesperto, con esiti tragici. In più, il sistema logistico italiano non dispone più di scorte, infermerie e strutture per gestire centinaia di migliaia di reclute: reintrodurre la leva richiederebbe ricostruire da zero caserme, magazzini e centri sanitari oggi riconvertiti o venduti.
Dai tentativi della “mini-naja” alla proposta leghista: tutti gli stop
La nostalgia non è nuova. Nel 2009 l’allora ministro Ignazio La Russa sperimentò la “mini-naja” di quindici giorni: 145 ragazzi in uniforme, costata circa 20 milioni di euro e presto archiviata come costosa vetrina. Nel 2024 la Lega ha depositato una proposta di legge per sei mesi obbligatori – militari o civili – per i giovani tra 18 e 26 anni. Anche qui la risposta di Crosetto è stata gelida, mentre alle spalle si levavano le obiezioni dei vertici militari su costi, alloggi e munizionamento. Risultato: il disegno di legge langue in Commissione, senza calendario di aula.
Il Ponte dei volontari
E’ evidente, quindi, che il ritorno della leva resterà politicamente suggestivo ma tecnicamente impraticabile. Più probabile è che l’esperimento Alpino diventi un ponte: formazione civile-militare su base volontaria, crediti formativi per i ragazzi e un bacino di riservisti utili in alluvioni, terremoti o, estrema ratio, crisi belliche. In altre parole, un esercito di professionisti affiancato da cittadini addestrati al soccorso, non da coscritti in marcia con lo zaino di leva.
Una nostalgia che non parla di guerra, ma di ordine
Il desiderio di ritorno alla leva non nasce davvero dalla previsione di un conflitto imminente, né dalla necessità strategica di difendersi da minacce esterne. Il richiamo alla “naja” è piuttosto lo specchio di un malessere sociale, la reazione istintiva a una società che appare sempre più disorientata, individualista, priva di senso del dovere e di responsabilità collettiva. È un grido – forse ingenuo, forse reazionario – che non invoca le armi, ma regole, disciplina, appartenenza. In un’epoca di crisi d’identità, la vecchia caserma diventa simbolo di qualcosa che manca: una scuola di carattere più che di guerra. E in fondo, è proprio questo il vero nodo: non ci serve un esercito di leva, ci serve una generazione che non abbia paura della parola “dovere”.
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