Avvocato Militare

IL RICORSO CONTRO LE SANZIONI MILITARI ALLA LUCE DELL’ORDINAMENTO CANONICO

Il ricorso gerarchico contro le sanzioni militari di Corpo visto alla luce dell’Ordinamento canonico. La giurisdizione condizionata (dall’immagine) dei “sacrati” e dei consacrati. – di Cleto Iafrate.

  1. Premessa

Ai tempi dell’impero romano il giuramento militare si chiamava sacramentum militiae, perché era il mezzo mediante il quale veniva creato un nuovo stato personale: lo status militis.

Il passaggio dallo status civitatis a quello militis avveniva nel corso del sacramentum allorquando il miles recitava la formula del giuramento solenne. Si riteneva che in quel preciso istante gli dei, chiamati in causa, infondessero in coloro che giuravano un supplemento di forza, di coraggio e anche di purezza.

A tal proposito è significativo il fatto che i legionari solo dopo il sacramentum erano autorizzati, in quanto sacrati, a uccidere o percuotere i nemici.

Il sacramentum era un vero e proprio atto di fede che legava i sacrati, per sempre, alla figura del loro comandante e li impegnava a difenderlo, a non mettere mai in discussione la sua autorità e, soprattutto, a non adombrarne l’immagine e il prestigio.

Da questa atmosfera ammantata di sacralità e di rinnovata purezza trovò facile accoglienza la regola dell’onore, come prerogativa dello status militis, che ancora oggi sopravvive in alcune norme alla base degli avanzamenti, dei trasferimenti e delle sanzioni militari, di cui ci siamo occupati ampiamente in un precedente contributo[1]. In quella occasione, con una insolita prova di laboratorio, è stato dimostrato che il senso dell’onore non può essere la prerogativa di uno status e ad esso necessariamente riconducibile.

Una virtù, per sua natura, non può che essere soggettiva e non estensibile a tutti i membri di una categoria.

  1. Il ricorso gerarchico contro le sanzioni militari di Corpo

 

In questa sede ci occuperemo di un’altra norma dell’Ordinamento militare retaggio di una cultura che genera disparità di trattamento tra militari e pubblici dipendenti.

Mi riferisco all’articolo 1363 c.2 del D.Lgs. 66/2010 che -in deroga alla disciplina generale, di cui al DPR 1199/71, secondo cui il ricorso gerarchico è facoltativo e alternativo rispetto al ricorso giurisdizionale- stabilisce: “Avverso le sanzioni disciplinari di corpo non è ammesso ricorso giurisdizionale o ricorso straordinario al presidente della Repubblica se prima non è stato esperito ricorso gerarchico o sono trascorsi novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso”.

In sintesi, mentre i dipendenti pubblici possono scegliere di impugnare le sanzioni disciplinari direttamente davanti al giudice, i militari sono assoggettati all’obbligo di preventivo ricorso gerarchico (tecnicamente si chiama giurisdizione condizionata).

La compatibilità costituzionale di questa condizione di procedibilità è stata vagliata ben due volte dalla Consulta, che in entrambe le occasioni ne ha dichiarato la costituzionalità (sent. 113/1997 e ord. 322/2013).

In particolare, la Corte, con sent. 113/1997, ha ritenuto “non irrazionale l’opzione legislativa di consentire l’accesso alla giurisdizione dopo l’esperimento del ricorso gerarchico, poiché trattasi di condizione di procedibilità diretta a perseguire, anche in tempo di pace, l’ordinato svolgimento del servizio”; senza però chiarire il nesso tra una norma procedurale estranea all’attività di servizio e l’ordinato svolgimento del servizio.

Da ultimo, la recente sentenza n. 880/2018 del Consiglio di Stato, IV sez., ha ribadito che «la disposizione in esame [l’art. 1363, c. 2 del d.lgs. 66/2010] intenda effettivamente delineare una condizione di procedibilità del giudizio».

Alla luce di questa decisione, la mancata proposizione del ricorso gerarchico, nella speciale materia della disciplina militare, impedisce una pronuncia sul merito e impone al giudice di dichiarare inammissibile il ricorso giurisdizionale proposto.

Si ritiene che un tale assetto processuale, se valutato in relazione alle seguenti tre circostanze, comprima in maniera eccessiva il diritto di difesa dei militari.

a) Il ricorso gerarchico rientra nel genus dei ricorsi amministrativi e, in quanto tale, soggiace al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Dal principio di corrispondenza deriva la conseguenza, condivisa da una parte della dottrina[2] e della giurisprudenza[3], che “non è possibile dedurre nel ricorso giurisdizionale, diretto contro un provvedimento di decisione sul ricorso gerarchico, motivi non prospettati in quella sede”.

Per dirla con le parole del TAR Lombardia, “il provvedimento decisorio del ricorso accede ma non sostituisce il provvedimento impugnato in sede gerarchica[4]”.

Ciò significa che il difensore in sede giurisdizionale sarà irreversibilmente vincolato ai soli motivi già esposti dal ricorrente medesimo in sede gerarchica, perché in sede giurisdizionale non si possono proporre censure diverse rispetto a quelle rivolte al provvedimento impugnato nel ricorso gerarchico.

Situazione questa che rende, sostanzialmente, il ricorso gerarchico un atto processuale, perché in grado di condizionare pesantemente e negativamente lo svolgimento del giudizio amministrativo. Il militare, quindi, in sede di riesame, subirà le conseguenze di eventuali sue carenze o errori commessi all’atto della esposizione delle motivazioni in sede gerarchica.

Ciò significa che al militare che intende opporsi ad una sanzione di Corpo è richiesta una conoscenza giuridica pari a quella di un avvocato. Circostanza assai difficile da verificarsi.

b) Ma non finisce qui. Nel ricorso gerarchico (ed anche nell’istanza di riesame) avverso le sanzioni disciplinari non è esplicitamente prevista la difesa tecnica[5].

E le amministrazioni militari non perdono occasione per rimarcare questo divieto. Significativo a tal proposito il caso di un militare il cui ricorso gerarchico proposto avverso una sanzione disciplinare è stato ritenuto inammissibile perché presentato non direttamente dallo stesso, “bensì tramite intermedia ancorché munito di delega[6].

Il militare inquisito, infatti, deve essere assistito da un difensore da lui scelto fra militari in servizio. Come se ciò non bastasse, il difensore non può essere di grado superiore a quello del presidente della commissione di disciplina; e l’ufficio di difensore non può essere esercitato dallo stesso militare per più di sei volte in dodici mesi (art. 1370 D.Lgs. 66/2010).

In sintesi, se il militare redige in proprio il ricorso gerarchico rischia, in caso di rigetto, di compromettere l’esito del successivo giudizio innanzi al TAR.

Se, invece, si rivolge presso uno studio legale rischia una sanzione disciplinare.

Parimenti rischia un sanzione disciplinare nel caso proponga direttamente ricorso giurisdizionale; si consideri, a tal proposito, il caso di un Sottufficiale, sanzionato per non essersi presentato allo svolgimento delle prove generali di una cerimonia in alta uniforme, che, per il solo fatto di aver proposto ricorso giurisdizionale senza aver previamente esperito la via gerarchica, ha ricevuto una seconda identica sanzione[7].

c) Le relazioni interorganiche tra gli uffici in ambito militare sono fortemente gerarchizzate. Una così rigida gerarchia degli uffici potrebbe indurre, per eccesso di zelo, il comandante competente a contestare gli addebiti a concordarne l’opportunità e le motivazioni con il comando superiore. In tal caso si viene a creare una sorta di cointeresse della linea gerarchica a confermare gli addebiti disciplinari[8]. Tali dinamiche non sono affatto sfuggite alla dottrina più attenta secondo cui vi è “assoluta inopportunità di consultazioni tra il comandante competente ad infliggere la sanzione ed altri superiori, con richiesta a questi di eventuali preventivi assensi, pareri o, peggio, concordando la sanzione. […] Il ricorso e la conseguente decisione sullo stesso, infatti, perderebbe in tal caso la propria funzione di rimedio, per tradursi in una sorta di “mise en scéne”. E’ infatti poco credibile che, dopo aver concordato, suggerito o anche solo assentito in merito all’inflizione di una determinata sanzione, il superiore annulli ciò che lui stesso aveva contribuito a determinare.”.

Il ricorso avverso una sanzione di Corpo, inoltre, giocoforza, viene percepito dalla linea gerarchica come una interferenza nell’azione di comando, percezione che, in alcuni casi, può innescare un gioco di squadra per dissuadere il ricorrente.

In questo casi una eventuale soccombenza dell’amministrazione innanzi al TAR, specie se seguita dalla condanna alle spese, potrebbe pesare sulle valutazioni caratteristiche annuali, non solo di chi ha contestato gli addebiti, ma anche dei suoi superiori ed essere motivo di valutazione in peius dell’azione di comando della catena gerarchica[9]. Anche tale circostanza concorre a creare un cointeresse intorno al buon fine (per l’amministrazione) del procedimento sanzionatorio.

A tutto ciò si aggiunga che il militare presenta ricorso gerarchico all’autorità che ha inflitto la sanzione che, a sua volta, lo trasmette all’autorità gerarchica immediatamente superiore (art. 1366 d.lgs. 66/2010). Una tale procedura impone al militare di scoprire le sue carte ancor prima che inizi il giudizio, offrendo così la possibilità all’amministrazione procedente, che prende visione della linea difensiva, di aggiustare il tiro all’atto della redazione delle controdeduzioni nella fase successiva del giudizio.

Questi elementi, sinergicamente combinati, limitano gravemente il diritto alla difesa dei militari.

A questo punto vien da chiedersi: una tale limitazione a quale interesse è funzionale?

 

Per avere più elementi di riflessione, prima di tentare una risposta a questa domanda, è opportuno analizzare l’istituto del ricorso gerarchico nell’ordinamento canonico, in quanto tra i due ordinamenti si osservano diversi punti di contatto.

Si consideri che il primo regolamento di disciplina dell’Arma dei Carabinieri pare sia stato scritto da un padre gesuita (probabilmente il fratello di Silvio Pellico) ed è stato definito una sorta di “catechismo dei buoni sentimenti”.

2.1. Il ricorso gerarchico dei “consacrati” nell’Ordinamento canonico [10]

Nell’Ordinamento canonico per “consacrati” si intendono tutti i membri del popolo di Dio, a prescindere dallo stato laicale o clericale, e non solo i membri del clero. Questi ultimi si distinguono dagli altri solo per aver ricevuto il Sacramento dell’Ordine.

Il “consacrato” destinatario di un atto amministrativo, qualora non volesse accettare ciò che l’Autorità Ecclesiastica ha deciso per lui, è obbligato ad effettuare un’istanza rivolta allo stesso autore che ha emanato l’atto, tendente ad ottenere una sua riforma o revoca. Qualora, poi, tale istanza non andasse a buon fine, al consacrato non rimane che effettuare il ricorso gerarchico e chiedere la revisione o la sospensione dell’atto. Il ricorso gerarchico è diretto al Vescovo o al competente dicastero della Curia Romana, a seconda che l’atto sia emanato da un Vicario episcopale o dal Vescovo stesso.

Nel ricorso gerarchico è prevista la difesa tecnica, infatti, ai sensi del can. 1738 del codice di diritto canonico, “Il ricorrente ha sempre diritto di valersi di un avvocato o procuratore, evitando inutili ritardi; anzi sia costituito un patrono d’ufficio se il ricorrente non ha un patrono e il Superiore lo ritenga necessario; il Superiore può tuttavia sempre ordinare al ricorrente di presentarsi personalmente per essere interrogato”.

In caso di rigetto del ricorso gerarchico, il fedele può proporre il ricorso giurisdizionale, che nell’ordinamento canonico è denominato ricorso contenzioso amministrativo per distinguerlo dal ricorso gerarchico. In questa fase si instaura propriamente la controversia tra Autorità e “consacrato”.

Il ricorso contenzioso viene trattato dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che ha struttura e funzioni analoghe a quelle che nell’Ordinamento Statale sono proprie del Consiglio di Stato.

Nell’ambito del popolo di Dio ciascun Vescovo è sovrano nella porzione di territorio a lui assegnata e il Papa è il capo di tutta la chiesa.

Dal momento che i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) convergono nel Pontefice, per quel che concerne la chiesa universale, e nel Vescovo, per quella diocesana, tradizionalmente si ritiene che “per questioni metafisiche non potesse esistere una giustizia amministrativa nell’ordinamento giuridico della Chiesa.  Questa la ragione per la quale nella Chiesa a livello apicale non è presente la separazione (tripartizione) dei poteri e non sono presenti nemmeno i tribunali amministrativi locali

Alla luce della peculiare costituzione gerarchica della Chiesa, si è ritenuto che la presenza dei tribunali amministrativi locali potesse, potenzialmente, mettere in ombra l’immagine del Vescovo (…) Il ricorso amministrativo, a differenza del contenzioso giudiziale, non è volto solo a fare giustizia, ma a governare bene, a consentire che le decisioni amministrative prese siano giuste ma anche opportune[11]”.

  1. Conclusioni

 

Per tornare alla domanda di sopra, ritengo che le limitazioni al diritto di difesa dei militari siano funzionali alla tutela dell’immagine e del prestigio dei corpi militari e, in particolare, alla salvaguardia dell’azione di comando dei capi militari.

 

Parrebbe, a questo punto, che l’ordinamento militare e quello canonico abbiano una comune radice, una fede, e una comune preoccupazione: la tutela dell’immagine.

 

Ma un conto è la fede e un conto sono le persone.

Per fede nella canonica si è disposti a sacrificare la giustizia sull’altare dell’immagine del Vescovo e a credere alla sua infallibilità sulle questioni diocesane, avendo egli risposto ad una chiamata divina. E’ sempre il dono della fede a rendere appagante la Parola di Dio, secondo cui sono “«Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia» quaggiù, «perché saranno consolati», lassù (Mt 5,6)”[12].

Ma non si può pretendere che faccia altrettanto chi ha fede solo nella ragione!

Chi ha fede nella ragione vuole saziare quaggiù la sua sete di giustizia e fa molta fatica ad accettare di sacrificare la giustizia per tutelare l’immagine dei Capi militari. In fondo gli stessi capi non sono stati mica chiamati, essi hanno risposto ad un bando di concorso; agiscono sotto l’azione dei loro sentimenti e seguono i loro convincimenti.

Chi può escludere che in certi casi i convincimenti possano essere annebbiati dalle passioni e i sentimenti dai risentimenti?

Mi pare priva di fondamento anche la tesi di chi ritiene che il rimedio giustiziale interno abbia la funzione di deflazionare l’attività giurisdizionale. Ciò in quanto un tale strumento deflattivo, per come è concepito, non solo non è in grado di garantire una tutela avente risultati equipollenti a quella giurisdizionale, ma addirittura potrebbe pregiudicarne l’esito.

Strumento deflattivo è, per esempio, il tentativo obbligatorio di mediazione in sede civile, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, in quanto, in caso di fallimento della mediazione, il conciliatore –estraneo al processo- non decide la vertenza ma lascia libere le parti di accedere alla giurisdizione.

Nel nostro caso, invece, è come se il mediatore, fallita la mediazione, svestisse i suoi panni per indossare quelli di una delle parti. Conoscendo la linea difensiva dell’altra, è ovvio che utilizzerà quelle informazioni nella redazione delle controdeduzioni.

 

Premesso tutto quanto sopra, auspico, che, su sollecitazione dei nascenti sindacati militari, il legislatore possa presto intervenire per rimuovere l’obbligo per i militari del ricorso gerarchico quale condizione per accedere alla giurisdizione amministrativa. Tale obbligo si pone in contrasto con gli articoli 24 e 111 della Costituzione, che congiuntamente prevedono il diritto a un giusto processo da svolgersi in pieno contraddittorio tra le parti.

Ai procedimenti di Corpo, peraltro, dovrebbero ritenersi applicabili, in via analogica, tutti i principi fondamentali espressi in materia penale dalla Costituzione agli artt. 25 e 27 (giudice naturale, principio d’irretroattività, principio di personalità, principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva, principio di umanità della pena, principio di legalità, principio della riserva di legge e principio di tipicità e tassatività).

E’ giusto il caso di precisare, relativamente agli ultimi tre principi enunciati, che i procedimenti di Corpo sono volti all’irrogazione di una sanzione destinata, per la sua afflittività[13], ad incidere sulla sfera della libertà personale e di movimento del militare.

Ciononostante, le infrazioni che danno luogo a sanzioni non sono affatto tipizzate, circostanza questa che pone il militare in balia totale dei suoi superiori. Per tutti si cita il caso di un militare sanzionato disciplinarmente per il sol fatto di aver intrattenuto un rapporto sessuale con la propria fidanzata in periodo in cui gli era stato consigliato di astenersi da attività traumatiche[14].

Cleto Iafrate

Per leggere gli altri contributi dello stesso autore clicca QUI.

 

(fonte: Studio Cataldi)

[1] C. Iafrate, “La specificità militare alla prova di laboratorio”, in www.ficiesse.it.

[2] F. Castiello, Diritto amministrativo militare, Laurus Robuffo, Roma, 2011, p.178.

[3] T.A.R. Sardegna, sez. I, n. 925/2010.

[4] Tar Lombardia, sez. III, n. 394/2017.

[5] Art. 1370 del D.Lgs. 66/2010.

[6] Si veda TAR Campania, sez.VI, n.3158/2014.

[7] S. Setti, “La giurisdizione condizionata amministrativa in materia militare…”, in Rassegna bimestrale di giustizia militare, ed. Ministero Difesa, (nota 43).

[8] Cfr. con E. Boursier – A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare – disciplina di corpo, terza edizione, Laurus Robuffo, Roma, 2004, p. 184.

[9] In particolare, potrebbero subire delle valutazioni in peius le seguenti voci: “capacità di giudizio”, “capacità di analisi” e “capacità di giudicare i dipendenti”.

[10] Seguirò in questo paragrafo solo gli approfondimenti di R. Giovanelli, “Il ricorso gerarchico in materia di sanzioni disciplinari militari condiziona la giurisdizione”, in “Il diritto Amministrativo”.

[11] G. Sciacca, “IL SUPREMO TRIBUNALE DELLA SEGNATURA APOSTOLICA E LE SUE COMPETENZE CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL’ATTUALE LEGISLAZIONE”, pubblicazione online.

[12] L’espressione è di Sant’Agostino, Dai Trattati su Giovanni 26, 4-6; CCL 36,236.

[13] Per un approfondimento in tema di afflittività delle sanzioni di Corpo: C. IAFRATE, “IL PARADOSSO DI UN’EUROPA PIU’ ATTENTA A FORME E DIMENSIONI DEI CETRIOLI CHE NON AL DIRITTO DI LIBERTA’ PERSONALE DEI CITTADINI MILITARI, in www.ficiesse.it.

[14] Fonte: https://www.grnet.it/news/news-news/19-militare-sanzionato-disciplinarmente-per-un-rapporto-sessuale-con-la-propria-fidanzata/.

 

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