Carabiniera sorpresa con cocaina in caserma: riammessa al lavoro, ma come civile
(di Avv. Umberto Lanzo)
Una vicenda giudiziaria complessa si è conclusa con una decisione sorprendente: una carabiniera forestale che era stata sorpresa con cocaina in caserma è stata riammessa al lavoro, anche se senza divisa. Il Tribunale Amministrativo dell’Emilia-Romagna ha infatti annullato la rimozione dal servizio, consentendole il passaggio a dipendente civile del Ministero della Difesa. La decisione si basa sulla necessità di tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore, riconoscendo che il suo comportamento era legato a una patologia psichiatrica.
Il caso: droga e alcol in caserma
Secondo quanto riportato, la donna soffriva di una patologia psichiatrica e, nonostante ciò, era stata riamessa in servizio armato nelle fila dei carabinieri forestali. Tuttavia, l’utilizzo di cocaina e alcol all’interno della caserma aveva portato alla sua rimozione dal grado, determinando il passaggio ai ruoli civili. Il Ministero della Difesa aveva poi disposto l’espulsione definitiva per grave incompatibilità con il servizio.
La decisione del TAR
Il TAR dell’Emilia-Romagna, chiamato a esprimersi sul caso, ha annullato la sanzione disciplinare evidenziando che la donna aveva già affrontato un percorso di riabilitazione e che il suo comportamento era legato a una condizione patologica. I giudici hanno sottolineato che esistono studi scientifici che dimostrano la correlazione tra disturbi psichiatrici e uso di sostanze stupefacenti. Per questo motivo, l’espulsione definitiva è stata ritenuta eccessiva e contraria al principio di tutela della salute del lavoratore.
Nel dettaglio, la sentenza evidenzia come il provvedimento di espulsione abbia violato “l’art. 2087 del Codice Civile, che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore“. Inoltre, il TAR ha rilevato un “difetto di motivazione, in quanto il provvedimento disciplinare non ha adeguatamente considerato la condizione sanitaria della ricorrente“.
In particolare, il tribunale ha evidenziato che “il provvedimento espulsivo si basava esclusivamente sulle evidenze tossicologiche e sull’inchiesta formale, senza una valutazione effettiva delle condizioni sanitarie della ricorrente, nonostante le memorie difensive e la documentazione presentata“. Questa mancata considerazione ha portato il TAR a riconoscere “l’illegittimità del provvedimento e a condannare il Ministero della Difesa e il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri al pagamento delle spese di lite, pari a 2.500 euro“.
L’impatto della sentenza
Con questa decisione, il tribunale ha stabilito che la donna non potrà più indossare la divisa, ma avrà diritto a rimanere nel Ministero della Difesa con un incarico civile. Il verdetto potrebbe ora spingere l’amministrazione a fare ricorso. Tuttavia, la sentenza rappresenta un precedente importante in materia di tutela della salute mentale nelle forze dell’ordine.
Il tribunale ha anche contestato la “mancanza di proporzionalità della sanzione, sottolineando che la misura adottata appare sproporzionata rispetto alla situazione clinica della ricorrente”. Un altro elemento critico individuato dal TAR riguarda la “violazione dell’art. 1388 del Codice dell’Ordinamento Militare, poiché la Commissione di disciplina avrebbe dovuto sospendere il procedimento per effettuare un supplemento di istruttoria“.
Inoltre, i giudici hanno rilevato “un difetto procedurale nella sottoscrizione digitale del provvedimento, aspetto che ne mina la validità formale”.
Quando la giustizia è chiamata a correggere l’ingiustizia
Questa sentenza non è solo una vittoria per la ricorrente, ma un monito per l’amministrazione militare: le regole disciplinari non possono essere applicate in modo cieco, ignorando il contesto umano e sanitario dei singoli casi. Un provvedimento espulsivo basato unicamente su un test tossicologico, senza alcuna analisi delle condizioni cliniche, non è giustizia: è un automatismo punitivo. E proprio per questo, è stato annullato.
Ora, resta da vedere se il Ministero della Difesa tenterà di ribaltare il verdetto con un ricorso. Ma una cosa è certa: la tutela della salute del lavoratore non può essere un optional, neppure (e forse soprattutto) per chi indossa una divisa.
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