Avvocato Militare

Assenteismo in divisa: Carabinieri truccavano i registri e usavano le auto di servizio per fini personali. Condannati a pagare 190.000 euro.

(di Avv. Umberto Lanzo)

Un grave caso di assenteismo e utilizzo abusivo di mezzi pubblici ha scosso l’Arma dei Carabinieri, portando alla condanna di quattro militari in servizio presso la Compagnia SETAF di Pisa, operante nella base americana di Camp Derby. La Procura regionale della Corte dei Conti ha ottenuto una sentenza che condanna i responsabili al risarcimento di oltre 190.000 euro per danni erariali di varia natura.

Una rete di falsificazioni sistematiche

L’indagine, nata da un esposto apparentemente firmato da un brigadiere, ha rivelato un sistema ben collaudato di comportamenti illeciti perpetrati per almeno due anni (2015-2017). I militari coinvolti – due tenenti colonnello, un luogotenente e un altro tenente colonnello con funzioni di comando superiore – utilizzavano “sistematicamente e in modo preordinato” le autovetture e le viacard dell’Amministrazione per fini strettamente personali, falsificando con metodo i registri ufficiali.

Come sottolineato nella sentenza: “Il convenuto non si era limitato ad assentarsi dal lavoro senza alcuna giustificazione, ma si era anche adoperato costantemente per falsificare i registri di presenza, evidentemente contando sulla propria posizione apicale e sulla conseguente mancanza di controlli in loco”.

I militari erano talmente sicuri dell’impunità che, come emerso dalle intercettazioni telefoniche, si scambiavano consigli su come coprire le loro tracce: “Ha detto che lui dirà che è andato da solo… però rimane un giorno dove mi hanno fatto una medicazione e lì c’è una traccia… e quindi dovrò dire che lì mi sono sentito male”.

Le indagini

Gli investigatori hanno impiegato varie metodologie d’indagine per smascherare gli abusi:

  • Installazione di GPS sui veicoli di servizio e talvolta su quelli privati
  • Pedinamenti mirati e osservazioni dirette
  • Analisi del traffico telefonico degli indagati
  • Incrocio dei dati con i registri di servizio e i fogli di marcia

Come riportato nella sentenza, l’attività investigativa è stata particolarmente accurata: “la prima, posta in essere una tantum il 30 novembre 2016 e poi continuativamente dal mese di gennaio del 2017, si è sostanziata in attività di osservazione e pedinamento, coadiuvate dall’installazione di apparati GPS sugli autoveicoli di servizio e, talora, anche su quelli privati; i dati così raccolti sono stati incrociati, in alcuni casi, con quelli desumibili dall’esame del traffico telefonico degli indagati”.

Particolarmente efficace si è rivelato l’esame delle transazioni autostradali effettuate con le viacard dell’Amministrazione, che ha permesso di ricostruire spostamenti incompatibili con le attività di servizio dichiarate nei documenti ufficiali.

La validità di queste metodologie è stata confermata dalla Corte, che ha sottolineato come “gli episodi sarebbero stati verosimilmente accertati in difetto”, poiché il raffronto era possibile solo nei casi in cui gli indagati attraversavano i caselli autostradali.

Il ruolo cruciale dei memoriali di servizio

Un elemento centrale dell’indagine è stata l’analisi dei memoriali di servizio, documenti fondamentali nell’organizzazione militare. Come chiarito nella sentenza: “i memoriali di servizio sono documenti pubblici, documentano i servizi che i militari sono comandati a prestare nelle ventiquattro ore successive al giorno della compilazione”, oltre a contenere “l’orario di servizio e quello presunto di fine, il tipo di mezzo che sono tenuti a impiegare”.

La falsificazione sistematica di questi documenti ufficiali ha rappresentato uno degli aspetti più gravi della vicenda, tanto da configurare non solo l’illecito disciplinare e contabile, ma anche precise ipotesi di reato.

Difese respinte: la circolare ministeriale non salva i colpevoli

I tentativi di giustificazione avanzati dagli imputati sono stati smontati uno ad uno dalla Corte. In particolare, è stata respinta l’interpretazione della “Direttiva sulle procedure d’impiego degli autoveicoli dell’area tecnica operativa della difesa” del 2015, che secondo gli imputati avrebbe consentito l’uso dei mezzi per spostamenti casa-lavoro o per ragioni sanitarie.

La Corte ha chiarito che “l’utilizzo dell’autovettura ai sensi della circolare del 2015 era consentito previa autorizzazione, in via del tutto occasionale e al di fuori dal normale orario di servizio”, mentre nel caso in esame “il convenuto ha utilizzato le autovetture di servizio senza alcuna previa autorizzazione ed in maniera sistematica”.

Particolarmente significativo il passaggio in cui i giudici hanno osservato: “l’utilizzo per ragioni sanitarie avrebbe presupposto che il convenuto chiedesse di essere messo in congedo per ragioni di salute e che, a tal fine, presentasse l’apposita documentazione medica. Invece, egli si è sempre servito delle autovetture istituzionali senza mettere al corrente l’Amministrazione delle ragioni sanitarie e senza richiedere la previa autorizzazione, anzi falsificando le attestazioni sulla sua presenza in servizio”.

Un danno multidimensionale per lo Stato

La sentenza ha riconosciuto diverse tipologie di danno erariale:

  1. Danno da lesione del nesso sinallagmatico – Quantificato nel 30% delle retribuzioni percepite durante il periodo delle condotte illecite, per un totale di oltre 37.000 euro. Questa voce considera “gli effetti devastanti della condotta e della sua sistematicità” sull’organizzazione del Comando.
  2. Danno patrimoniale diretto – Relativo ai costi di manutenzione, usura dei veicoli e spese per i trasferimenti d’ufficio resi necessari dopo la scoperta dei fatti.
  3. Danno all’immagine dell’Arma – La componente più significativa, quantificata in oltre 62.000 euro per il principale responsabile. La Corte ha considerato “la connotazione dolosa della condotta, la gravità e la molteplicità degli illeciti, la vasta eco avuta dalla vicenda sulla stampa locale e, soprattutto, la posizione apicale del convenuto, che ha reso il disdoro per l’Arma dei Carabinieri e per il Ministero della Difesa ancora più incisivo”.

L’ostacolo alle indagini: un doppio illecito

Un aspetto particolarmente grave della vicenda riguarda il tentativo di ostacolare le indagini. Come rivelato dalla sentenza, uno degli ufficiali superiori, venuto a conoscenza dell’esposto per ragioni d’ufficio, aveva avvertito i colleghi indagati, vanificando così parte dell’attività investigativa: “dopo essere venuto in possesso per ragioni di ufficio dell’esposto anonimo che aveva dato luogo alle indagini, si sarebbe adoperato per informare il collega a cavallo tra i mesi di febbraio e marzo del 2017, così vanificando l’ulteriore attività investigativa”.

Questa condotta ha configurato un ulteriore illecito, tanto che la Corte ha stabilito che “La condotta, penalmente rilevante, integrerebbe anche gli estremi dell’illecito erariale”, condannando l’ufficiale al risarcimento di oltre 6.000 euro per il danno causato all’Amministrazione.

Un precedente importante per la PA

Di particolare rilievo giuridico è stato il riconoscimento della perseguibilità immediata del danno all’immagine nei casi di assenteismo fraudolento, senza necessità di attendere sentenze penali definitive. La Corte ha stabilito che esiste una “fattispecie speciale” tipizzata dal legislatore che deroga alla disciplina generale.

Come chiarito nella sentenza: “la categoria del danno erariale all’immagine, originariamente frutto di elaborazione giurisprudenziale della Corte dei conti, ha rinvenuto codificazione normativa” che oggi permette una più efficace azione contro questi fenomeni.

La prescrizione non salva gli assenteisti

Fondamentale anche la decisione sulla prescrizione. La Corte ha respinto l’eccezione difensiva, stabilendo che “il dies a quo dev’essere identificato nella data della richiesta di rinvio a giudizio” e non dal momento dei fatti, proprio a causa dell’“occultamento doloso del danno” attraverso la falsificazione dei documenti.

I giudici hanno precisato che “l’impossibilità per l’Amministrazione di venire a conoscenza dell’esistenza del danno e di identificarlo nelle sue linee essenziali è ancor più evidente, alla luce dell’innegabile alterazione di centinaia di documenti di servizio”.

Le conseguenze per i protagonisti della vicenda

La sentenza ha condannato il principale responsabile al pagamento di 93.335,13 euro, mentre per gli altri le condanne variano da circa 6.300 euro a oltre 71.000 euro. Due dei militari hanno optato per il rito abbreviato, con conseguente definizione anticipata delle loro posizioni.

Oltre al risarcimento economico, i militari hanno subito conseguenze disciplinari e penali, con alcuni che hanno patteggiato ai sensi dell’art. 444 c.p.p., mentre altri sono stati condannati in primo grado con sentenza attualmente sottoposta a gravame.

Un monito per tutti i dipendenti pubblici

Il caso rappresenta un severo avvertimento per tutti i dipendenti pubblici e dimostra come i controlli interni dell’Arma, quando attivati efficacemente, possano portare alla luce anche comportamenti illeciti perpetrati da chi riveste posizioni di potere e responsabilità.

La vicenda lascia però l’amaro in bocca: proprio coloro che erano chiamati a garantire la legalità hanno tradito la fiducia dell’istituzione e dei cittadini, infliggendo un danno morale ed economico che richiederà tempo per essere sanato.

L’importanza della sentenza va oltre il caso specifico, configurandosi come un significativo precedente nella lotta contro l’assenteismo nella pubblica amministrazione e nell’affermazione del principio che nessuno, indipendentemente dal grado o dalla posizione ricoperta, è al di sopra della legge.

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