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URANIO IMPOVERITO, TAR: “SÌ RISARCIMENTO A MILITARI” SPERANZA PER 2000 MILITARI

(di Tiziana Colluto) – L’Esercito italiano non gli ha fornito
equipaggiamento adeguato, mentre ha operato “in territori notoriamente contaminati da
sostanze nocive quali l’uranio impoverito”.

Basta questo, per il Tar di
Lecce: il ministero della Difesa sarà costretto a risarcire un sottufficiale
salentino ammalatosi al ritorno dall’Iraq. Non un linfoma di Hodgkin né
un cancro, stavolta, ma disfunzioni della tiroide e del fegato. Che siano
conseguenza di quella missione è ritenuto “altamente probabile” e l’onere della
prova non spetta più al militare: a dimostrare il contrario dovrà essere lo
Stato.
È uno dei primi effetti dell’orientamento
giurisprudenziale cristallizzato dal Tar del Lazio, ribadito due
mesi fa dal Tar di Torino e destinato a rimescolare tutte le
carte in tema di indennizzi. Il principio fissato è netto: “A causa
dell’impossibilità di stabilire, sulla base delle attuali conoscenze
scientifiche, un nesso diretto di causa-effetto, e per il
riconoscimento del concorso di altri fattori collegati ai contesti fortemente
degradati ed inquinati dei teatri operativi, non deve essere richiesta la
dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza
assoluta, essendo sufficiente la dimostrazione, in termini
probabilistico-statistici
, come indicato nella Relazione della Commissione
Parlamentare di Inchiesta approvata nella seduta del 12 febbraio 2008 ed in
quella approvata nella seduta del 9 gennaio 2013”.
Sono quattro i contesti a cui si fa riferimento: BalcaniIraq,
Afghanistan e Libano. È sufficiente aver partecipato ad
una di quelle missioni perché le vittime delle patologie e i
loro familiari abbiano diritto agli indennizzi. E questo in tutti i
casi in cui la pubblica amministrazione non riesca a dimostrare che la malattia
non sia sorta per altro.
Scrivono i giudici
amministrativi nella sentenza con cui ieri è stato accolto il ricorso
presentato contro ministero della Difesa e ministero dell’Economia dal
sottufficiale difeso dall’avvocato Floriana De Donno: “È indubbio che il
ricorrente abbia vissuto in ambiti contaminati e abbia svolto la missione senza
le necessarie protezioni ed è fatto notorio che in quegli ambiti è
presente l’uranio impoverito: vi è quindi un alto grado di probabilità che la
patologia sia insorta a causa dell’esposizione alle polveri sottili e
ultra sottili”.
Bollate come “illogiche e arbitrarie” le conclusioni
a cui è giunto il Comitato di verifica, che aveva escluso la causa di servizio
per “ipotiroidismo in trattamento e in fase di compenso clinico in paziente con
precedente morbo di Basedow ed epatopatia steatosica in
soggetto con pregressi segni analitici di sofferenza epatocellulare”. Quale
unico presupposto dell’infermità era stata ritenuta la predisposizione
genetica
, che tra l’altro non c’era. Non solo, il morbo di Basedow era
stato considerato causa “preponderante se non unica”, per cui non potevano aver
esercitato “alcuna influenza nociva gli eventi del servizio prestato”.
Argomentazione “semplicistica” per il Tar, un “travisamento dei fatti”: non si
può escludere che l’aver operato in quei territori sia una concausa
dell’insorgenza
 della malattia, specie se precoce. In questo caso, i
sintomi sono apparsi quando il sottoufficiale aveva appena 27 anni e dopo
quattro mesi in Iraq per la missione “Antica Babilonia”. Prima, era stato
inviato in Macedonia e Kosovo, dove avrebbe subito
l’esposizione a radiazioni ionizzanti, a causa di “turni massacranti all’aperto
che si protraevano anche per più di 15 ore al giorno in condizioni meteo
avverse e in assenza di igiene”, come riportato nel ricorso.
“Non ci pagheranno mai” , aveva detto, prima di
morire, uno dei soldati diventati il simbolo della battaglia degli ammalati
d’uranio. Ora, per oltre duemila di loro il sentiero diverso è tracciato.

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