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“ERO LO SBIRRO DI BORSELLINO, ORA LASCIO SENZA MEDAGLIE”

(di Rino Giacalone) – La mafia siciliana cercò di ucciderlo nella
stagione stragista del 1992. Lui, Rino Germanà, catanese di origine, 63 anni,
era tornato a fare in quell’anno il dirigente del commissariato di Mazara del
Vallo.

Il 14 settembre di ventitré anni addietro, all’ora di pranzo, sulla
strada che costeggia la spiaggia mazarese di Tonnarella, fu inseguito e fatto
segno di colpi di kalashnikov da parte di un commando di super killer di Cosa
nostra composto da Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe
Graviano. 
Scene da far west quel giorno davanti a una folla di gente che stava
al mare, Germanà che scendeva dall’auto rispondendo al fuoco, il commando che, senza
mai abbandonare l’auto guidata dall’attuale super latitante Messina Denaro,
continuava a sparare attraverso i finestrini, per poi decidere di andar via.
«Sembrava che stessero girando la scena di un film» disse uno dei tanti
testimoni sulla spiaggia. E come se fosse davvero una fiction, quella scena sul
lungomare di Tonnarella si chiuse con un mazarese che apriva come rifugio per
Germanà la porta di casa facendo segno con la voce e le mani: «Commissario,
commissario venga qui». «Non appena la porta di quella casa si chiuse sapete
cosa abbiamo fatto? Ci siamo seduti e abbiamo pregato Padre Pio» raccontò un
giorno Germanà a un’affollata assemblea studentesca.  
I killer, quel 14 settembre 1992, per quanto
ritenuti massimi e autorevoli esponenti della mafia, dovettero fuggire via
dimostrando, per fortuna, incapacità nell’attuare il compito loro affidato da
Totò Riina. Quasi a suggellare che quella fosse la conclusione degna di una
fiction del famoso Montalbano di Camilleri.  
UNA
NUOVA CARRIERA
  
Quella magnifica penna dello scrittore siciliano è
destinata a non restare sola, anzi il maestro Camilleri si appresta ad avere un
simpatico concorrente, che come scrittore non avrà certo bisogno di
«inventarsi» nulla. Chi? Lui, proprio Rino Germanà. Da domani il poliziotto che
diede molto fastidio ai mafiosi, e non solo quel giorno sul litorale di
Tonnarella, lascerà il servizio, andrà in pensione. Di fatto si è già
accomiatato da questore di Piacenza, ultimo incarico ricoperto. Cosa farà
adesso? «Ho imparato a conoscere gli uomini, mi sono relazionato con tanta
gente, ho cominciato a scrivere un libro, ho già scritto 50 pagine, voglio
raccontare con ironia una serie di fatti». Il primo? «Racconterò di quando per
anni abbiamo cercato uno che era defunto». Si trattava di Totò Minore, capo
della mafia di Trapani, ucciso nel 1983 ma rimasto nel limbo degli «scomparsi»
fino al 1991, quando i pentiti rivelarono il suo assassinio.  
LODI E
RIMPIANTI
  
L’ironia è un’arma che non manca al questore che va
in pensione. Eppure avrebbe tanta ragione a lamentarsi di uno Stato che sa solo
piangere i propri caduti ma sa anche creare rimpianto tra i suoi più fedeli
servitori, solo perché rimasti in vita. Resta inquietante e senza risposta
l’ordine di tornare a Mazara nella terribile stagione stragista del ’92 e del
’93. Germanà aveva già fatto carriera arrivando alla Criminalpol siciliana, ma
dovette tornare a fare il commissario, compiendo un clamoroso passo indietro
nella carriera. Avrebbe dovuto sbarcare a Palermo, dopo la strage di Capaci,
per come desiderava il giudice Paolo Borsellino che, però, non ebbe il tempo di
far pervenire la richiesta al Viminale. 
IL
DIMENTICATOIO
  
Quanto gli sembrava lontana l’emozione di essere
riuscito a sfuggire all’attentato. Quella giornata, Germanà, l’aveva cominciata
sotto il piombo, a Mazara, ma l’aveva conclusa a Roma, al Viminale, dove
l’allora ministro Mancino, tenendolo sottobraccio vistosamente incerottato, lo
offrì compiaciuto a telecamere e fotoreporter.  
Poi di Rino Germanà non si seppe più nulla. Sparito
nel dimenticatoio, lui che, da investigatore, aveva fatto le pulci a Cosa
nostra, a quella criminale quanto a quella che oggi si direbbe dei «colletti
bianchi», quella annidata dentro politica e banche (suo il famoso rapporto sulla
Banca Sicula dell’odierno senatore D’Alì, sotto processo in appello per
concorso esterno dopo una sentenza stile «Andreotti» pronunciata in primo
grado: prescrizione e assoluzione). Come sottoposto ad una sorta di «soggiorno
obbligato» fuori dalla Sicilia, finì persino a fare il dirigente del
commissariato di frontiera a Bologna.  
Ma Germanà in tutti questi anni non si è mai
lamentato, «ho sempre ubbidito ai voleri dell’amministrazione», dice adesso .
Sopravvivere ad un agguato mafioso, per poi magari non vivere la gioia di
vedersi premiato.  
Quell’agguato interruppe la sua carriera, ripresa
solo molti anni dopo con la nomina a questore e dopo che un articolo su L’Unità
della giornalista Sandra Amurri fece tornare alla memoria del Viminale quel
funzionario capace e bravo. Questore dapprima a Forlì poi a Piacenza. 
LO
SBIRRO E IL BOSS
  
Tra gli aneddoti che riguardano il «Germanà sbirro»,
quello che racconta delle numerose convocazioni nel suo ufficio del «patriarca»
della mafia belicina, quel Ciccio Messina Denaro, padre di Matteo. Spazientito
e umiliato, una volta il vecchio boss gli chiese se dovesse «ringraziarlo» per
tanta attenzione. Lo sbirro gli rispose con un semplice, eloquente sorriso.
«Mantengo sempre l’insegnamento di mio padre che mi consigliava di sorridere
soprattutto “a chi ti vuole male”, perché “prima o poi il sorriso ti verrà
restituito”». «Tante gratificazioni ho ricevuto, ma la più grande, dopo
l’attentato, fu la gioia di avere un terzo figlio, Francesco». 
LA
MEDAGLIA CHE MANCA
  

Ma c’è stato qualche mafioso che gli ha sorriso?
Germanà racconta: «Un giorno un killer agrigentino che avevo arrestato, uno che
aveva ucciso tante persone, mi disse: “Dottore, ogni sera quando chiudo gli
occhi quei morti me li trovo tutti davanti”. Questo è meglio di un sorriso
perché la dice lunga sull’infelicità di essere mafioso». Oggi è lui a decidere
di restare a vivere da pensionato lontano dalla Sicilia, nel «profondo Nord».
«Qui ormai è la mia vita». Va in pensione mentre da un anno attendono risposta
in Parlamento, dal ministro Alfano, due interrogazioni, presentate
dall’onorevole Mattiello e dalla senatrice Ricchiuti, sul perché mai «il
Viminale abbia dimenticato di far proposta al Capo dello Stato del conferimento
a Germanà della medaglia d’oro al valor civile». Lui, da questore di Piacenza
ha avuto maniera di appenderla al petto di un suo agente che si era distinto in
un conflitto a fuoco. Lui, che mandò all’aria il piano di morte di tre super
killer della mafia, attende, ma – assicura – «senza avere recriminazioni da
fare». Come Montalbano, che va via dalla stanza del suo questore facendo
spallucce. 

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