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QUANDO IN GUERRA COMBATTONO LE DONNE. IN ITALIA SONO 10MILA


(di GIAMPAOLO CADALANU)  Per una donna è più facile ordinare una guerra
che combatterla in prima persona. Nel 1982, durante la guerra delle Falklands,
al numero 11 di Downing Street, c’era la signora di ferro, Margaret Thatcher, a
comandare l’offensiva contro gli argentini.

A battersi in prima fila sotto la
bandiera di Sua Maestà per riconquistare l’arcipelago, però, donne non ce
n’erano. Anche trent’anni dopo, oggi che le Forze Armate dei Paesi occidentali
hanno aperto i ranghi al sesso femminile, per una donna sembra quasi più facile
arrivare a posizioni di potere che andare al fronte. Basta guardare all’Europa:
hanno affidato a una donna il ministero della Difesa Italia, Germania,
Norvegia, Olanda, Albania, Montenegro. Ma in combattimento, no. Sembra quasi
una logica da film bellico di terza categoria: dove fischiano le pallottole non
è posto per signore. Persino i libri di storia confermano il pregiudizio: le
eroine capaci di affrontare la morte senza paura non mancano, ma per molte di
loro l’unica strada percorribile è quella di fingersi uomini.
Doppio
sforzo.
 Luogo comune o pregiudizio
puro e semplice che sia, resta ancora consolidato al giorno d’oggi. L’altra
metà delle stellette deve farsi largo a fatica, con il doppio dello sforzo.
Arriva a comandare brigate, a pilotare navi o cacciabombardieri, a strappare
l’ingresso nelle Forze speciali, ma in Occidente resta spesso accolta con un
filo di condiscendenza dai commilitoni più tradizionalisti. Per limitare
l’accesso delle donne alle posizioni più rischiose, cioè alle occasioni di
combattimento, viene spesso citato il timore che i soldati maschi siano
distratti dai loro compiti perché istintivamente sono portati a proteggere le
colleghe. Apparentemente, all’origine di questa vicenda sembra esserci una
citazione di Edward Luttwak, ripresa ampiamente dai circoli conservatori
americani e basata, sostiene lo storico militare, sulle esperienze riferite dai
militari israeliani durante la Guerra arabo-israeliana del 1948. In realtà
questo comportamento incoerente non è mai stato evidenziato da esperimenti
scientifici. E questo vale anche per gli altri luoghi comuni, come il presunto
crollo psicologico degli uomini se vedono una donna ferita o uccisa.

Ma ci sono Paesi dove questi pregiudizi non vengono
considerati, dove cioè le soldatesse rivestono anche ruoli di combattimento.
Spesso il via libera alle donne arriva da motivazioni strategiche, cioè in
Paesi che hanno estremo bisogno di militari per motivi storici e politici:
Eritrea, Corea del Nord, la stessa Israele. Ma va sottolineato che il ruolo
femminile è ancora più significativo nelle situazioni di scontro asimmetrico o
non convenzionale. In altre parole, se gli eserciti delle nazioni sviluppate
seguono regole rigide, evitando alle soldatesse l’impegno nelle situazione
rischiose, gli schieramenti guerriglieri e le formazioni terroriste non si
fanno troppi problemi. La tendenza era emersa già durante la guerra del
Vietnam, per poi diventare comune nelle guerriglie moderne. Persino quando sono
coinvolte fazioni che fanno riferimento alla religione islamica, il
tradizionale ruolo subalterno della donna viene spesso dimenticato in favore
dell’efficacia bellica. Le notizie degli ultimi mesi lo confermano: servono
guerrieri per difendere Siria e Iraq, o almeno le province curde. E le donne
peshmerga rispondono all’appello. Anche dall’altra parte, cioè fra le file del
sedicente Stato islamico, ci sono combattenti con il velo. Insomma, se si
tratta di apertura alle soldatesse, anche l’orda di Abubakr al Baghdadi appare
più moderna delle Forze armate d’Occidente.

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