Polizia Penitenziaria, lo sfogo sui social diventa un grido di aiuto: scatta la sospensione
(di Avv. Umberto Lanzo)
Una vicenda che ha acceso un dibattito su limiti e responsabilità nell’era digitale è quella che ha coinvolto un assistente capo della Polizia Penitenziaria, a seguito di alcuni commenti pubblicati sulla pagina ufficiale Facebook del Corpo. L’episodio, avvenuto nell’ottobre 2024, ha sollevato interrogativi sul rapporto tra libertà di espressione e obblighi deontologici, portando a un procedimento disciplinare culminato nella sospensione dal servizio dell’agente per un mese.
I fatti: una critica pubblica che diventa caso disciplinare
Tutto è iniziato quando, in occasione del secondo incontro del Gruppo G7 Roma/Lione, l’Amministrazione Penitenziaria ha pubblicato sulla pagina social ufficiale un post celebrativo, accompagnato da foto dei vertici del Corpo e dei rappresentanti presenti all’evento. Sotto al post, alcuni commenti di presunti appartenenti alla Polizia Penitenziaria hanno preso una piega critica, con toni che l’Amministrazione ha ritenuto denigratori.
Tra questi vi erano i commenti di un assistente capo, che avrebbe scritto: “Ma sta gente ha mai solo visto una sezione? Basta folklore” e, in un altro intervento, “Ditelo al G7 che in Italia le carceri le gestiscono e comandano i detenuti… che in Italia gira più droga e telefonini nei carceri che fuori”. Il poliziotto avrebbe inoltre descritto le difficoltà quotidiane degli agenti penitenziari, parlando di aggressioni, sovraffollamento e condizioni lavorative insostenibili, concludendo che la rappresentazione offerta dall’Amministrazione durante l’evento fosse lontana dalla realtà vissuta nelle carceri.
Questi commenti hanno portato all’apertura di un’indagine disciplinare, con l’accusa di aver leso il prestigio e l’immagine dell’Amministrazione Penitenziaria. L’assistente capo è stato identificato e accusato di denigrazione dell’Amministrazione o dei superiori, una violazione disciplinare prevista dall’art. 5, comma 3, lettera g) del D.Lgs. 30 ottobre 1992, n. 449.
La posizione dell’Amministrazione: un danno d’immagine
Secondo l’Amministrazione, i commenti pubblicati dall’assistente capo avrebbero superato i limiti della legittima critica, trasformandosi in dichiarazioni pubbliche offensive. La circolare 3660/6110 del 20 febbraio 2015, che regola l’uso dei social media da parte del personale del Corpo, equipara i social network agli strumenti tradizionali di comunicazione pubblica, come giornali o televisione. Pertanto, ogni intervento pubblicato deve essere conforme ai doveri di riservatezza, lealtà e decoro professionale.
L’Amministrazione ha ritenuto che i commenti, pur riferendosi a problematiche esistenti, siano stati espressi in modo tale da ledere il rapporto fiduciario tra il dipendente e l’istituzione. La pubblicazione su una piattaforma accessibile a chiunque avrebbe amplificato l’impatto delle affermazioni, contribuendo a diffondere un’immagine negativa del Corpo.
La difesa: un grido di aiuto dettato dalla frustrazione
Nel corso del procedimento disciplinare, l’assistente capo avrebbe spiegato che i suoi commenti erano nati come uno sfogo personale. In un memoriale difensivo, avrebbe sottolineato come le condizioni di lavoro fossero spesso insostenibili: turni massacranti, aggressioni quotidiane da parte dei detenuti, carenze strutturali e sanitarie nelle carceri. Avrebbe anche ricordato episodi particolarmente difficili, come il periodo della pandemia da Covid-19, durante il quale il personale penitenziario avrebbe affrontato situazioni di isolamento e sacrificio senza ricevere il supporto adeguato.
L’assistente capo avrebbe dichiarato che il suo intento non era mai stato quello di denigrare l’Amministrazione o i suoi superiori, ma piuttosto di portare alla luce le difficoltà reali vissute dagli agenti penitenziari. Avrebbe inoltre espresso rammarico qualora i suoi commenti fossero stati percepiti in modo offensivo, ribadendo il rispetto e la stima verso il Corpo di appartenenza.
Secondo la sua difesa, i commenti pubblicati avrebbero voluto rappresentare un grido di aiuto, un tentativo di dare voce al disagio condiviso da molti colleghi. Tuttavia, la scelta del mezzo e il linguaggio utilizzato potrebbero aver dato un’impressione diversa, trasformando quello che voleva essere un contributo costruttivo in un problema disciplinare.
La decisione: sospensione dal servizio
Il caso è stato esaminato dal Consiglio Centrale di Disciplina, che nella seduta del 16 aprile 2025 ha deliberato la sanzione di sospensione dal servizio per un mese. La decisione, motivata e depositata il 26 maggio 2025, ha riconosciuto che, pur comprendendo le difficoltà del personale penitenziario, i commenti pubblicati dall’assistente capo non rispettavano i requisiti di lealtà e decoro richiesti a un rappresentante delle forze dell’ordine.
Durante il periodo di sospensione, al dipendente è stato concesso un assegno alimentare pari alla metà dello stipendio, oltre agli assegni per carichi di famiglia. La sanzione, secondo il Consiglio, rappresentava un atto necessario per tutelare l’immagine dell’Amministrazione e ribadire l’importanza del rispetto delle regole deontologiche.
Un caso che richiede una riflessione più ampia
Questa vicenda evidenzia le difficoltà di bilanciare la libertà di espressione individuale con gli obblighi professionali e deontologici. Da un lato, è evidente che il personale penitenziario affronta situazioni di estrema complessità, che meritano maggiore attenzione e supporto. Dall’altro, l’utilizzo dei social media da parte di dipendenti pubblici richiede una gestione attenta, per evitare situazioni che possano compromettere il rapporto fiduciario con l’istituzione.
Il caso dell’assistente capo della Polizia Penitenziaria non è solo una questione disciplinare, ma un segnale di un malessere diffuso che non può essere ignorato. È necessario che l’Amministrazione colga questa occasione per avviare un confronto più aperto con il personale, affrontando le problematiche segnalate e prevedendo strumenti più efficaci per raccogliere segnalazioni e lamentele in modo interno e riservato.
In definitiva, questo episodio sottolinea l’importanza di un equilibrio tra il diritto di critica e il rispetto delle istituzioni, invitando a una riflessione comune sul ruolo della comunicazione nell’era digitale.
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