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L’ex compagna accusa: «Usa droga». Carabiniere perde il grado, ma il Tar lo riabilita

VENEZIA – Accusato dall’ex compagna di fare uso di marijuana, un carabiniere era risultato positivo alla cocaina e per questo aveva perso il grado di appuntato. Ma il militare dell’Arma è riuscito a dimostrare l’inattendibilità del test a cui era stato sottoposto: forse il reperto era stato contaminato. Per questo il Tar del Veneto ha annullato la sanzione disciplinare a suo carico.

I FATTI

La sentenza depositata ieri riassume i fatti avvenuti lo scorso anno. In seguito ad alcuni dissidi familiari, il carabiniere era stato querelato dall’ex convivente, la quale lo accusava fra l’altro di fumare marijuana. Di conseguenza l’appuntato era stato convocato in infermeria, dove gli era stata comunicata la certificazione di 32 giorni di malattia, «per consentire l’esecuzione di specifici accertamenti con lo psicologo ed eventualmente anche con lo psichiatra», riassumono i giudici amministrativi. L’uomo era stato condotto in una struttura sanitaria per il prelievo di un campione pilifero, ma l’esame non si era potuto svolgere «per l’insufficiente lunghezza sia dei capelli della zona nucale, sia dei peli pubici». Un successivo appuntamento era saltato, in quanto l’appuntato era stato contatto stretto di positivi al Covid. Il terzo tentativo era invece riuscito durante il colloquio con lo psicologo, con il prelievo «senza preavviso» di un capello, poi risultato positivo alla cocaina. Inevitabilmente era partito il procedimento disciplinare, culminato nella sanzione della perdita del grado per rimozione «comportante la destituzione»: per il militare si profilava la fine della carriera.

L’IMPUGNAZIONE

A quel punto è scattata l’impugnazione dell’atto, con la presentazione del ricorso al Tribunale amministrativo regionale contro il ministero della Difesa. Secondo i magistrati, l’esame «si è svolto con modalità che, inficiandone l’attendibilità, non possono essere ragionevolmente poste a fondamento del provvedimento sanzionatorio». A questo proposito, la sentenza mette in fila una serie di circostanze, non smentite dall’Arma. Innanzi tutto, «la dottoressa che ha eseguito l’esame non indossava guanti sterili, si è fatta aiutare da un collega del ricorrente lì presente, anch’esso privo di guanti, che ha provveduto al taglio del capello, ed ha utilizzato un contenitore non sterile, estratto dalla tasca del proprio camice». Inoltre «manca l’indicazione della quantità del campione raccolto» ed «è stata rifiutata la richiesta di revisione del campione detenuto dall’Amministrazione, perché nel corso dell’esame non sono state acquisite due ciocche di capelli, la seconda delle quali da utilizzare per le controanalisi come previsto dai protocolli vigenti». Infine, il carabiniere «dopo 7 giorni dal precedente prelievo, si è volontariamente sottoposto ad un nuovo test che si è svolto in modo conforme alle regole previste presso una struttura pubblica, e l’esito è risultato negativo».

L’IPOTESI

Non può essere esclusa l’ipotesi che il capello contestato sia stato contaminato, poiché «la quantità di sostanza stupefacente che sarebbe stata identificata ha un valore esiguo (di 0,05 ng/mg)», a fronte di una soglia di 0,5 raccomandata dagli esperti o di 0,2 per i lavoratori con mansioni a rischio. I vertici ministeriali hanno affermato di aver svolto le operazioni «nel rispetto della normativa prevista ed in conformità con i protocolli sanitari vigneti in materia». Invece secondo il Tar la punizione «deve essere annullata perché si fonda su accertamenti eseguiti in violazione delle procedure volte a garantire la genuinità e la correttezza dei dati raccolti e ciò rende inattendibile l’esito del test».

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