Insulti al carabiniere dopo il selfie con Salvini: cinque a processo per diffamazione aggravata
L’origine del caso: un selfie diventato virale
Era l’estate del 2020 quando un semplice selfie scattato durante un comizio di Matteo Salvini a San Benedetto del Tronto si trasformò in miccia di una bufera social. Nell’immagine, comparsa su Facebook, si vedeva un maresciallo dei carabinieri in divisa, accanto al leader della Lega, mentre l’allora ministro si concedeva ai fan per una serie di foto ricordo.
Quel gesto, apparentemente innocuo, scatenò invece una valanga di commenti offensivi e diffamatori rivolti al militare, accusato da alcuni utenti di aver infranto i doveri di neutralità dell’Arma.
L’inchiesta e gli imputati
Da quei post è nata un’indagine della Polizia postale di Ascoli Piceno, che ha ricostruito la catena dei profili coinvolti. Cinque persone — tra i 50 e i 70 anni, residenti tra Lombardia e Lazio — sono ora a processo per diffamazione aggravata nei confronti del maresciallo.
Il procedimento fa parte di un’inchiesta più ampia che conta circa sessanta imputati: un mosaico di commenti, condivisioni e insulti che, secondo gli inquirenti, hanno superato di gran lunga i limiti della libera espressione.
Alcuni degli indagati avevano tentato di occultare la propria identità dietro profili falsi, ma le verifiche informatiche hanno permesso di identificarli uno a uno.
La difesa del maresciallo e la richiesta di risarcimento
Il militare, costituitosi parte civile attraverso l’avvocato Alessandro Angelozzi, ha chiesto un risarcimento di 10mila euro per ciascuno degli imputati.
Secondo la difesa, le frasi pubblicate su Facebook avrebbero leso in modo grave l’onore e la reputazione del carabiniere, travolgendo non solo la sua immagine personale ma anche quella dell’istituzione che rappresentava.
Il maresciallo ha chiarito che lo scatto era stato iniziato da Salvini stesso, e che aveva abbassato la mascherina solo per il tempo necessario alla foto, essendo in servizio durante l’evento politico.
Dal diritto di critica all’attacco personale
Per la parte civile, quanto accaduto non può essere derubricato a “critica politica”: quei commenti, spesso pubblici e condivisi in rete, costituirebbero un attacco personale e istituzionale a un servitore dello Stato.
La vicenda solleva, ancora una volta, il delicato confine tra libertà d’espressione e responsabilità sui social network, un terreno dove l’anonimato e la velocità della rete rischiano di trasformare un’opinione in un reato.
Un processo simbolo dell’era digitale
Il procedimento, attualmente in corso, rappresenta uno dei casi più significativi di diffamazione online legati a episodi di esposizione mediatica di pubblici ufficiali.
Sotto la lente del tribunale non c’è solo la colpa dei singoli imputati, ma anche il potere distruttivo della rete quando la rabbia e l’ironia degenerano in insulti e falsità.
In un’Italia in cui la giustizia si misura sempre più spesso anche a colpi di post, questo processo potrebbe diventare un precedente importante sul fronte della tutela dell’onore e della reputazione nel mondo digitale.
Diventa parte di Infodifesa 💼
Sei già un lettore appassionato? Allora sai quanto è importante avere un’informazione di qualità su difesa, sicurezza e forze dell’ordine. Con l’abbonamento ad Infodifesa potrai leggere le nostre notizie **senza pubblicità** e partecipare alle redazioni online e influire attivamente sulle tematiche di interesse.
Sostieni Infodifesa & ABBONATI ORA📲 Unisciti al canale WhatsApp di Infodifesa!
Vuoi ricevere aggiornamenti, notizie esclusive e approfondimenti direttamente sul tuo smartphone? Iscriviti ora al nostro canale ufficiale WhatsApp!
✅ Iscriviti su WhatsAppSenza spam. Solo ciò che ti interessa davvero.
