Editoriale

IL GENERALE MORI IN COMBUTTA CON LA MAFIA? NON CI CREDO

(di Peppino Caldarola per Lettera43) -Ho seguito le cose di mafia per anni a l’Unità. Avevamo cronisti bravissimi a Palermo, ma spesso venivo inviato sul campo a rafforzare la squadra. Ero già vice-direttore del giornale. Negli anni mi sono imbattuto nei famosi super-poliziotti con molti dei quali sono diventato (ricordo il carissimo Antonio Manganelli con cui ho passato per un decennio tutti i sabati e le domeniche) e sono tuttora amico personale. Tommaso Buscetta quando era in Italia per deporre nei processi che lo vedevano testimone, almeno una-due volte la settimana veniva a cena da me a parlare della sua vita, della sua famiglia, talvolta interrompendosi per chiamare Miami dove viveva con la sua adorata e felice ultima famiglia.

LA PRECISIONE NEI GIUDIZI DI MORI. Non mi sono mai considerato esperto di mafia ma sapevo molte cose. Quando uccisero Salvo Lima si decise al giornale che scendessi anche io a Palermo. Ricordo che scrissi un pezzo sulla messa del funerale e che il mio artoolo cominciava dicendo: «Ho visto le facce terrorizzate dei capi Dc». In quella occasione conobbi Mori non ancora generale. Fu un incontro breve, in cui il futuro generale mi impressionò molto per la precisione dei giudizi. Anni dopo, come membro del comitato parlamentare di controllo sull’attività dei servizi segreti, mi capitò di incontrarlo più volte quando veniva a riferirci lo stato di pericolo interno del Paese. Erano anni difficili. Per capirci, erano gli anni dei rapimenti di nostri concittadini in Iraq e di riorganizzazione di strutture brigatiste.

“Il generale Mori mi è sempre sembrato un serio, solido, affidabile uomo delle istituzioni”

Il generale Mori mi è sempre sembrato un serio, solido, affidabile uomo delle istituzioni. Poi iniziò a essere travolto dall’inchiesta palermitana che arrivò, nel tentativo di coinvolgere il Quirinale, a un’altra persona eccellente, quel Loris D’Ambrosio, grande magistrato, che morì d’infarto nel pieno della campagna partita da Palermo e che aveva come obiettivo la presidenza della Repubblica.

LE BUFALE DI CIANCIMINO JR. In quella inchiesta e in altre l’uomo chiave era un contafrottole figlio di Vito Ciancimino che venne fatto apparire come il secondo grande pentito di mafia dopo Buscetta. La stessa sentenza di alcuni giorni fa lo ha condannato per aver diffamato Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e mio fratello dopo tanti anni vissuti in amicizia, e per averlo diffamato presentandosi in un ruolo di “mafioso” che il tribunale non gli ha riconosciuto. Era un ballista puro e semplice, altro che il personaggio elogiato nei libri di Ingroia (oggi anche lui indagato per cose non eleganti, diciamo così) e celebrato da giornalisti televisivi.

Io non credo alla colpevolezza di Maio Mori. So che il mondo dell’ investigazione comprende anche momenti di trattativa col nemico, ma non so se è vero che ci siano stati con la mafia e non mi convince, anzi mi fa ribrezzo, l’idea che Mori sia considerato un complice della mafia. Trovo anche drammatico che, da molti anni a questa parte, l’attenzione di magistrati di Palermo e di tanta opinione pubblica abbia a tal punto sovrapposto l’immagine dello Stato a quella della mafia da far quasi intendere che la vera Cosa Nostra sia sparita e che le cosche siano lo Stato.

NESSUNO PARLA DEI VERI MAFIOSI. Alcuni movimenti politici sono cresciuti su questa ignobile bugia. Sarà contento Matteo Messina Denaro nel vedere che una parte dello Stato si dedica a togliere l’onore a gente che ha combattuto i suoi predecessori facendo cadere una cortina di silenzio sui mafiosi in campo. Molti di loro sono stati arrestati e alcuni proprio da Mori e dai suoi uomini. Peccato che questa storia in Italia non si possa raccontare.

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