Avvocato Militare

Condannato per violenza sessuale su minore, poliziotto destituito impugna il provvedimento. Il Consiglio di Stato “Indubbia Gravità dei fatti”

(di Avv. Umberto Lanzo) – La Seconda Sezione del Consiglio di Stato ha respinto il ricorso presentato da un assistente capo coordinatore della Polizia di Stato, contro la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria che aveva confermato la legittimità del suo licenziamento dalla Polizia.

La condanna penale per violenza sessuale e la destituzione dalla Polizia di Stato

I fatti risalgono al 2018 quando l’agente, che nel tempo libero svolgeva l’attività di istruttore di arrampicata sportiva, venne condannato dal Tribunale di Rovereto e successivamente dalla Corte d’Appello di Trento per violenza sessuale su una minore abusando della sua posizione di autorevolezza data dall’età e dal ruolo di istruttore. La condanna divenne definitiva nel 2019 e comportò anche l’interdizione perpetua da incarichi in qualsiasi ufficio frequentato da minori.

A seguito della sentenza l’Amministrazione avviò nei confronti del poliziotto un procedimento disciplinare conclusosi con il massimo della sanzione, ovvero con la destituzione dal Corpo della Polizia di Stato. Il poliziotto presentò quindi ricorso al TAR della Liguria lamentando un eccessivo appiattimento del procedimento disciplinare su quello penale, senza tenere conto di circostanze che avrebbero potuto attenuare la sanzione, e chiedendo che fosse comminata una sanzione meno pesante in ossequio al principio di proporzionalità.

Il rigetto del ricorso da parte del TAR e l’appello al Consiglio di Stato

Il TAR rigettò il ricorso e il poliziotto presentò appello al Consiglio di Stato che ha ora confermato la sentenza di primo grado. In particolare i giudici amministrativi hanno ricordato come la sentenza penale di condanna abbia efficacia di giudicato anche nel procedimento disciplinare relativamente all’accertamento dei fatti, alla loro illiceità e all’affermazione della responsabilità dell’imputato. L’Amministrazione non aveva quindi alcun obbligo di svolgere una propria attività istruttoria su fatti già accertati in sede penale.

Per quanto riguarda la presunta mancata valutazione dello stato di servizio e del fatto che i fatti non fossero avvenuti durante l’attività lavorativa, il Consiglio di Stato ha ricordato che, sebbene tali elementi possano essere considerati, essi non sono comunque determinanti ai fini della rilevanza disciplinare di gravi fatti di rilevanza penale commessi da un appartenente alle forze dell’ordine.

Il bilanciamento degli interessi pubblici

Infine, per i giudici amministrativi, non può considerarsi sproporzionata la sanzione della destituzione, vista la gravità dei fatti accertati in sede penale. Il principio di proporzionalità, pur rilevante, deve essere bilanciato con l’interesse pubblico al corretto esercizio della funzione di tutela svolta dagli appartenenti alle forze dell’ordine, che impone di valutare con estremo rigore comportamenti contrari ai doveri assunti con il giuramento.

Scrivono i giudici: “Del resto sulla gravità dei fatti di cui si è reso protagonista l’appellante non può esserci dubbio alcuna, giacché egli, istruttore nel tempo libero di arrampicata sportiva, è risultato aver approfittato dell’autorevolezza che derivava da tale qualifica oltre che dalla differenza di età, per indurre una minore a compiere atti sessuali descritti nel capo di imputazione, facendo addirittura nascere una sorta di rapporto affettivo tanto da suscitarne la gelosia.”

A fronte di una siffatta condotta non può ritenersi irragionevole, arbitraria o sproporzionata la determinazione disciplinare dell’Amministrazione che non considerato utile a sterilizzarla il comportamento esemplare tenuto in servizio dall’interessato.

La condanna in primo grado con rito abbreviato, scelta processuale dell’interessato, non può considerarsi indice di una diversa valutazione della gravità dei fatti da parte del giudice penale. Per tali motivi è stata confermata la legittimità della sanzione disciplinare inflitta all’appartenente alla Polizia di Stato, ritenuta non manifestamente irragionevole o sproporzionata.

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