L’ex capo di Stato maggiore Vincenzo Camporini: “Messaggio di Vannacci devastante, è un militare senza disciplina”
ROMA. Quando un generale dell’esercito arriva a commentare con nonchalance le parole del Capo dello Stato, come se fosse normale discuterne sui giornali, allora un ex capo di Stato maggiore quale Vincenzo Camporini sobbalza. «Mi pare che il messaggio inviato dal generale Roberto Vannacci sia devastante. Non è che un ufficiale, siccome si considera il più intelligente e il più bravo, allora rovescia i fondamentali».
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Ecco, generale, ricordiamoli questi fondamentali.
«Sgombriamo il campo dalla questione giuridica. Chi strilla che sarebbe stato violato l’articolo 21 della Costituzione, si dimentica che la Costituzione è fatta non solo dall’articolo 21 ma da qualche cos’altro. C’è un articolo 98, dove è scritto che per alcune categorie, tra cui i magistrati e i militari in servizio, si possono per legge limitare i diritti politici. Insomma, la Costituzione ammette che per i militari ci possa essere qualche limitazione all’esercizio di alcuni diritti. Da questo punto di vista, il discorso sulla costituzionalità o meno, la legalità o meno, dell’intervento del ministro Crosetto è una bufala».
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Questo per le forme. Nella sostanza?
«Nella sostanza, qualunque esponente delle forze armate, ma soprattutto se è un grado apicale, e ovviamente un generale di divisione lo è, è parte di un’istituzione che detiene del “privilegio” dell’uso legittimo della forza. Ora già solo questo dovrebbe bastare per indicare a chi gode di questo privilegio, la necessità di apparire non soltanto di essere assolutamente al di fuori di qualsiasi diatriba politica. Ora, a prescindere dai contenuti del libro di Vannacci, anche se avesse scritto il contrario di quello che ha scritto, comunque sarebbe stato inopportuno perché in qualche modo viene fuori l’immagine di forze armate che non sono più uno strumento pulito dello Stato ma un qualche cosa di orientato. E non va bene».
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Si è sempre detto: le forze armate italiane sono e devono restare apolitiche.
«È la nostra tradizione lodevolissima. Persino al tempo del fascismo, i militari italiani sono stati neutrali e rispettosi del giuramento con Casa Savoia. Si è visto quando è nato il governo del Sud, come i nostri hanno dato vita al fronte militare clandestino. Era la milizia, l’arma politicizzata del regime. E anche pensando a tempi più recenti, a differenza di altre forze armate, i nostri non sono mai state coinvolti seriamente in vicende politiche. Anche De Lorenzo, alla fine lo seguivano il suo segretario e quattro picciotti, non il grosso della istituzione».
Nelle tante interviste, il generale Vannacci ha detto anche che lui è «disponibile» a spiegare le sue ragioni al ministro della Difesa.
«E qui mi viene da ridere. Questo ufficiale evidentemente non ha interiorizzato la disciplina: un militare, se vuole avere la possibilità di parlare con la catena gerarchica, fa la sua richiesta di essere messo a rapporto, e se questa richiesta viene accettata allora il superiore lungo la catena di comando avrà la bontà di ascoltarlo. Non è il contrario».
E se non è soddisfatto?
«Può chiedere di andare a rapporto al livello superiore. Diciamo che nel suo caso può chiederlo al capo di Stato maggiore dell’Esercito. È tutta una catena gerarchica. E non è che uno salta la catena perché è bello, intelligente e sa parlare».
È arrivato a commentare in modo tranciante le parole del Capo dello Stato.
«Scherziamo? Non è proibito, certo. Non c’è nessuna legge che lo vieta. Non è un reato. Ma semplicemente non si fa».
Scusi, generale, da ex capo di Stato maggiore che ha guidato le nostre forze armate, alla fine che messaggio arriva da tutta questa storia?
«Devastante. All’interno, questo generale sta mandando il messaggio che quelli che si ritengono i più bravi, i più belli, i più capaci, possono fare tutto e possono prendere posizioni e orientamenti che invece dovrebbero essere estranei alla funzione delle forze armate. All’esterno, fin troppi si sentiranno autorizzati a pensare e scrivere sui social le loro stupidaggini».
La Stampa
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