Avvocato Militare

Cassazione: dire a un carabiniere che “rompe le p… alle donne” non è reato

Dire a un carabiniere che “rompe le palle a tutte le donne” non è diffamazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, assolto un 55enne della provincia di Latina, che era stato condannato in promo grado e in appello a pagare una multa di 500 euro per “avere offeso la reputazione” del militare.

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Ci sono voluti cinque anni di udienze e tre sentenze per arrivare alla definizione della vicenda, nata da una discussione verbale e poi trasferita nelle aule dei tribunali.

Tutto è nato nel 2018, quando il 55enne aveva riferito a due superiori del carabiniere che “lo stesso infastidiva la sua compagna, contattandola ripetutamente per telefono, nonché l’ex consorte”. La frase incriminata era: “rompeva le palle a tutte le donne”.

Un’espressione ritenuta lesiva per il militare, che ha denunciato l’uomo per diffamazione. Sia il giudice di primo grado che quello di appello hanno dato ragione alla parte offesa, ritenendo che con quella espressione il 55enne aveva messo in ridicolo il militare rispetto ai suoi colleghi. L’uomo però non ha accettato il verdetto e si è rivolto alla suprema corte di cassazione per l’ultima parola. E gli ermellini hanno ritenuto di dover annullare la sentenza “perché il fatto non sussiste”.

Per la Cassazione, “i toni utilizzati dall’imputato, sicuramente poco commendevoli, come ammesso dal ricorrente stesso”, non erano idonei “a ledere la reputazione della persona offesa, alla luce dell’assenza di sproporzione espressiva e dei concreti destinatari delle affermazioni”. Non solo: “In base alle stesse risultanze istruttorie evocate dai Giudici di merito, si indica la veridicità della circostanza narrata dall’imputato”. Vale a dire che il militare non era insensibile al fascino femminile.

In sostanza, “In nessun brano del contesto narrativo riportato, né nel fatto ascritto, è dato registrare quella escalation narrativa ravvisata invece dal Tribunale, che avrebbe poi portato il ricorrente a trasmodare consapevolmente nell’arbitraria mortificazione del soggetto, così esponendolo al disprezzo dei colleghi”.

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