Giustizia

La Cassazione riconosce il risarcimento ai familiari dei 34 militari precipitati dal viadotto mentre andavano a vedere Juventus-Inter

Imperia – La giustizia arriva, in Italia, anche a distanza di 37 anni. Si parla di militari, giovanissimi, morti alla fine dell’anno 1983. La Cassazione sta esaminando, uno dopo l’altro, i ricorsi dei familiari di 35 ragazzi precipitati il 18 dicembre di quell’anno da un altissimo cavalcavia, il viadotto Castagna di Genova Nervi, nel viaggio fra Spezia e Torino. 

La sentenza di Cassazione appena uscita riguarda il caso di Filippo Russo, un giovane siciliano. Indossava, come tutti i caduti in quell’ultimo viaggio,  la divisa della Marina Militare. Le sentenze della Cassazione parlano tutte di 37 vittime, anche se i nomi sulla targa di Nervi sono 35.

Pioveva, forte. Le gomme erano lisce. Il mezzo perse addirittura dei pezzi, prima di sbandare e finire giù. Fu un caso drammatico di negligenza. Quel pullman non avrebbe dovuto lasciare la base militare, nemmeno in un giorno di sole. Viaggiava, invece, a velocità sostenuta, in mezzo ad una pioggia incessante.

Lo Stato aveva risarcito una cinquantina di milioni di lire a ragazzo, l’assicurazione aveva pagato 300 milioni da dividere fra tutti. Il solo processo penale era durato oltre dieci anni. L’unico condannato era stato peraltro un sottufficiale, accusato di non aver controllato bene lo stato di usura delle gomme. Era poi intervenuta la prescrizione, cancellando la condanna a suo carico.

«Sono vittime del dovere?»

Non c’era stato niente da fare, all’epoca, in termini di riconoscimento dello status di vittime del dovere. Non era previsto. Solo nel 2005, una norma ispirata dall’Unione Europea, aveva aperto uno spiraglio. Erano ripartite le cause, ma il concetto non pareva acquisito, a giudicare dai “no” emessi da più Corti, in giro per l’Italia. Alcuni familiari non si erano comunque  arresi. Una decina di anni fa, in sede di tribunale del lavoro, a Genova, la famiglia di Marco Cecchi, 19 anni, ha ottenuto una sentenza a favore. L’avvocato che cura questi ricorsi è Andrea Bava. E ora, a distanza di una quindicina di anni dalla norma del 2005, che ha riaperto tutto, la Corte Suprema sta azzerando, una dopo l’altra, le sentenze delle varie Corti nazionali che avevano fin qui negato a questi giovani il riconoscimento di «vittime del dovere». 

La prima sentenza di Cassazione su questa sventurata vicenda, risale al 2018. L’aveva ottenuta una mamma di Torino, Antonia Cipresso, per il riconoscimento del figlio, Umberto De Mare, marinaio di leva, quale vittima del dovere. Poi, dalla  Sardegna, mamma Francesca Mura, per il figlio Antonio Pitzalis. E dalla Calabria, papà Giovanni Triulcio e mamma Concetta Caratozzolo, per il figlio Giuseppe. E, ancora, da Bari, Matteo Battista e Arcangela Donatacci, per il figlio Antonio. Alla spicciolata, ne stanno seguendo altre. 

Quella partita mai vista

Si è discusso per anni sul riconoscimento dello status di vittime del dovere, perché i ragazzi non erano – secondo la Difesa – in un contesto strettamente militare. Tuttavia erano impegnati in una missione di rappresentanza delle Forze Armate, che era anche un premio. Erano stati scelti per assistere ad una attesissima partita di calcio. Avrebbero dovuto raggiungere Torino, per assistere ad un epico scontro calcistico fra Inter e Juventus. Non arrivarono mai allo stadio comunale. Quel mezzo, malandato, partì dalla caserma Maricentro di Aulla e finì dritto giù dal cavalcavia, all’altezza di Nervi, dove ancora oggi – ogni anno – viene celebrato il ricordo, presso la targa che porta incisi i nomi delle vittime. Fu una tragedia davvero immensa. In 34 morirono subito, compreso il ragazzo di vent’anni che guidava il pullman. Gli altri quattro furono ricoverati, uno in gravissime condizioni. Non sopravvisse e morì l’anno dopo.  

Quando erano usciti i loro nomi, gli altri avevano nascosto a fatica quel senso di inevitabile invidia, per tanta fortuna. Solo che il mezzo sul quale viaggiavano era uscito di strada. Era stata una strage. Si è discusso, in questi 37 anni, del diritto dei familiari a veder riconosciuto il nesso fra la morte e lo stato di servizio. 

L’aiuto europeo

La controversia si è trascinata nel tempo. Prima della legge del 23 dicembre del 2005, la 266, le famiglie non avevano intravisto alcuna possibilità. Poi è arrivato quel comma 564 dell’articolo 1, che recita: «Sono equiparati ai soggetti di cui al comma 563 coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegua il decesso, in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio, per le particolari condizioni ambientali od operative». Precipitare da un cavalcavia e morire, poco più che maggiorenni, con la divisa da marinai, rientra in questa definizione. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione. È vero che i contesti espressamente citati nella legge sono il contrasto alla criminalità, lo svolgimento di servizi di ordine pubblico, la vigilanza ad infrastrutture militari e civili, le operazioni di soccorso e le attività di tutela alla pubblica incolumità, e le azioni ostili nei loro confronti. Tuttavia quel comma aggiunge qualcosa. Equipara anche quanti trovino la morte in missione, «di qualunque natura», anche se non pericolose per natura, ma tali da poterle diventare, in circostanze eccezionali. Quel viaggio in pullman non era di per sé una missione pericolosa. Tuttavia quei ragazzi morirono. La Cassazione scrive che la legge non opera la tipizzazione di singole attività caratterizzate, ma volutamente risulta formulata una fattispecie aperta, che tutela tutto ciò che sia avvenuto, per eccezionali situazioni, in occasione di missioni di qualunque natura. Una «nozione lata del concetto di missione». 

Le condizioni straordinarie

Qualcosa di straordinario avvenne, purtroppo, inteso come «condizioni straordinarie che aggravarono il normale rischio connesso al trasferimento». Il mezzo di trasporto era, infatti, «in pessime condizioni di manutenzione» e fu usato «a dispetto delle avverse condizioni meteorologiche, come accertato definitivamente in sede penale». La lapide che li onora, recita così: “Non ho saputo mai se fossi parte della terra e i fiori crescessero con me, ora so”. È una frase ispirata al brano di Willie Metcalf, contenuto nell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, tradotto da Fernanda Pivano. Figura considerata in qualche modo sfavorita, Willie si rivela invece delicato e sensibile. I nomi dei ragazzi sono citati in ordine alfabetico. Anelli Carmelo, Battista Antonio, Bertoldo Moreno, Bosco Nicola, Camisa Sandro, Cecchi Marco, De Boni Silvio, De Mare Umberto, Di Lecce Alessandro, Gordano Emanuele, Guerra Matteo, Liguori Giuseppe, Lisotti Gabriele, Loffredo Stefano, Lombardi Massimo, Longo Filippo, Maimone Domenico, Mancusi Andrea, Marchini Francesco, Mattioli Salvatore, Pelliccia Salvatore, Pitzalis Antono, Pucci Alessandro, Quagliani Luigi, Raccuglia Edoardo, Rosanna Marco, Russo Filippo, Simonetti Giorgio, Soloperto Giovanni, Telloli Antonio, Tizzone Alfio, Todaro Nicolò, Traversa Walter, Triulcio Giuseppe, Troiani Cosimo.  

Beneficiari solo conviventi

In termini di individuazione dei beneficiari superstiti, la Cassazione ha stabilito – sempre in questi giorni – che vengano considerati tal solo «quelli che in qualche modo godevano o comunque contavano sul reddito del soggetto colpito dall’evento». È stata respinta l’istanza di una donna, di Genova, Ledda L., sorella non convivente del dipendente civile della Difesa che quel giorno morì, accompagnando i ragazzi. Massimo L. ha ricevuto il riconoscimento di vittima del dovere, ma la sorella – unica superstite dell’uomo – non era né convivente né a carico. Per la categoria dei fratelli e delle sorelle, scrivono i giudici della Corte Suprema, è richiesto nel caso il requisito della convivenza e della dipendenza economica, al fine dell’erogazione dei benefici, in ragione della natura assistenziale di questi ultimi. La nozione di superstiti, in questi casi, è valida solo per le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata e di azioni criminose. 

Redazione articolo a cura de Il Secolo XIX

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