Guardia di Finanza

Il calvario del Colonnello Mendella: Sei mesi in cella e Dieci anni di battaglie legali per provare la sua innocenza. “Una vita rovinata”

È una storia che fa riflettere, quella del Colonnello Fabio Massimo Mendella, un ufficiale della Guardia di Finanza che ha dovuto affrontare un calvario giudiziario durato dieci anni. Arrestato l’11 giugno 2014 con l’accusa di corruzione, Mendella ha sempre professato la sua innocenza, rinunciando persino alla prescrizione pur di dimostrare la verità. Oggi, finalmente assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Napoli, il Colonnello può raccontare la sua storia e le cicatrici che questa vicenda gli ha lasciato addosso.

Il caso

Tutto inizia quando Mendella, all’epoca comandante del gruppo di Roma della Guardia di Finanza, viene accusato dai pubblici ministeri Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli di aver incassato tangenti da un imprenditore, Giovanni Pizzicato, per addomesticare i controlli. L’ordinanza di cattura, firmata dal giudice preliminare, lo sbatte in cella per sei mesi in mezzo ai delinquenti della peggior specie, marchiandolo come un professionista della corruzione.

Le conseguenze

La vita e la carriera di Mendella vengono distrutte. Congelato negli avanzamenti, con lo stipendio ridotto in misura importante, il Colonnello vede la sua famiglia “buttata nel cesso”. Quando lo arrestarono era colonnello, comandava il gruppo di Roma della Guardia di finanza. E colonnello è rimasto: «Oggi sarei generale di divisione». Anche il fratello, anch’egli ufficiale della Guardia di Finanza, subisce le conseguenze di questa storia, trasferito lontano da Napoli.

La svolta

Ci vorrà l’intervento della Corte d’Appello di Napoli per ribaltare la sentenza di primo grado e assolvere Mendella con formula piena. “Nessuna condotta dolosa o colposa nel compimento dell’attività di servizio e nell’adempimento dei propri doveri”, si legge nella sentenza. I giudici smontano l’impianto accusatorio, evidenziando la correttezza operativa dell’ufficiale e la mancanza di prove concrete a suo carico.

Secondo la Corte d’Appello, “Il Tribunale ha vagliato come prove serie e decisive meri sospetti e suggestive ipotesi investigative prive di una reale certezza probatoria”. La sentenza demolisce anche la credibilità dell’unico testimone d’accusa, l’imprenditore Pizzicato, definito “spregiudicato” e “incoerente”. “La Corte d’Appello rispetto alla condanna di primo grado sostiene che è stato ‘smarrito il senso della necessaria valutazione della pregnanza di singoli fatti e circostanze e del loro individuale e serio rilievo indiziario, giungendo così a fondare il proprio convincimento su meri sospetti che, pur nella loro potente suggestività, hanno acquisito un’apparenza probatoria che, ad una più attenta analisi logica risultano non aver mai posseduto, lasciando spazio a possibili ricostruzioni alternative dei fatti'”, si legge ancora nella sentenza.

Le parole di Mendella

“Ero in ufficio a Livorno quel giorno, 11 giugno 2014. Ho visto i miei collaboratori con le lacrime agli occhi”, racconta il Colonnello Mendella. “Sono particolarmente legato alla città Livorno e ai miei collaboratori. Se ho rinunciato alla prescrizione l’ho fatto per difendere non solo la mia persona, i miei familiari, gli amici che mi sono stati vicino. Ma anche per difendere l’onorabilità anche a Livorno. In questi anni da Livorno ho sempre avuto testimonianze di affetto e stima”.

Il vero scandalo

Ma il vero scandalo emerso da questa storia è un altro: l’impunità che Pizzicato si è garantito spacciandosi per collaboratore di giustizia, nonostante Mendella avesse segnalato più volte le attività criminali dell’imprenditore, chiedendone l’arresto e il sequestro dei beni. Nel frattempo, il suo accusatore ha continuato a delinquere, fin quando non lo hanno arrestato a Torino.

La storia di Fabio Massimo Mendella è emblematica di come, a volte, la giustizia possa smarrire la retta via, trasformandosi in un’arma nelle mani dei disonesti. Un’accusa infondata può distruggere la vita di un uomo e della sua famiglia, lasciando cicatrici profonde che nemmeno la più completa delle assoluzioni potrà mai cancellare del tutto.

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