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Carabiniere uccise il collega in servizio, l’aggravante di abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione

Con sentenza emessa in data 3.8.2017, la Corte di Assise di Appello di Perugia riduceva a 18 anni di reclusione la pena inflitta ad ARMENI Emanuele per il delitto di omicidio aggravato commesso in danno del collega LUCENTINI Emanuele, Appuntato Scelto dell’Arma dei Carabinieri come l’imputato.

Il fatto era accaduto alle ore 6,35 circa del 16.5.2015 all’interno del cortile della caserma che ospitava la Compagnia Carabinieri di Foligno, dove l’ARMENI, al termine del servizio di pattuglia effettuato con il LUCENTINI a partire dalle ore 1.00, aveva colpito quest’ultimo alla testa con un proiettile esploso dalla pistola mitragliatrice M-12/52.

La Corte di secondo grado confermava l’esclusione, già operata dal primo Giudice, delle circostanze aggravanti della premeditazione  e di aver agito contro un ufficiale o agente di P.G. o di P.S. nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni e del servizio, ribadiva, viceversa, la sussistenza della ulteriore aggravante dell’aver agito con abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione e il diniego delle attenuanti generiche.

Dopo aver nuovamente illustrato le caratteristiche tecniche del mitragliatore Beretta M12/S2 e le modalità di sparo, la Corte territoriale sottolineava la prima macroscopica incongruenza emersa dalla versione resa dall’ARMENI, alla luce del fatto che l’arma in dotazione era stata studiata per rendere impossibile il verificarsi di colpi accidentali. Per poter sparare, infatti, non era necessario solo premere il grilletto, ma occorreva porre in essere una serie di operazioni – che l’ARMENI aveva negato di aver effettuato -, che, per la tempistica e la complessità della sequenza, dovevano per forza di cose costituire il frutto di una scelta volontaria, potendo un riflesso involontario avere in ipotesi provocato lo spostamento del cursore dalla posizione “S” (sicura manuale) alla posizione “I” (arma in funzionamento a colpo singolo), ma non certo un’operazione coordinata come quella di tirare indietro con l’indice della mano destra la sicura automatica e, contemporaneamente, con la mano sinistra tirare indietro l’asta di armamento senza neppure accorgersene.

Occorreva, inoltre, da ultimo, premere il grilletto, continuando a premere la sicura “automatica”, operazione che l’ARMENI aveva addirittura negato di aver attuato. Né era emerso alcun elemento che potesse giustificare un’ipotesi di mal funzionamento dell’arma in dotazione al LUCENTINI, ipotesi concordemente esclusa sia dal perito che dai consulenti di parte, i quali avevano evidenziato come l’arma fosse quasi nuova e avesse sparato solo poche centinaia di colpi.

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Secondo la Suprema Corte di Cassazione, i giudici del gravame hanno ragionevolmente opinato che la scelta della caserma non era affatto peregrina, sia per l’orario in cui avvenne l’episodio (6,35 del mattino), che portava a escludere la presenza di commilitoni sul posto – tanto è vero che nessun esito aveva sortito l’escussione dei militari occupanti gli alloggi che si affacciavano sul cortile interno -, sia per la possibilità di approfittare della collocazione della mitraglietta sul sedile della vettura di servizio, sia, infine, per il mancato funzionamento delle telecamere interne al cortile, circostanza, quest’ultima, di cui l’ARMENI era consapevole e rispetto alla quale nessuno specifico rilievo viene articolato nel corpo del ricorso.

Nel ritenere irrilevante il mancato accertamento del movente – stigmatizzato in ricorso a riprova del difetto di dolo – secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha fatto, poi, corretta applicazione di consolidati insegnamenti della giurisprudenza di legittimità, per cui l’individuazione di un adeguato movente dell’azione omicidiaria perde qualsiasi rilevanza, ai fini dell’affermazione della responsabilità, allorché – come nel caso di specie – vi sia, comunque, la prova dell’attribuibilità di detta azione all’imputato; né il mancato accertamento del movente medesimo può risolversi nell’affermazione probatoria di assenza di dolo del delitto di omicidio, o, tanto meno, di assenza di coscienza e volontà dell’azione.

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I Giudici dell’appello hanno dato atto, per quanto emerso dall’istruttoria sul punto, che, in tutte le occasioni in cui l’ARMENI aveva puntato l’arma in direzione di un commilitone, o non aveva premuto il grilletto, o aveva sparato “a salve”, dando conto di come il suo intendimento fosse quello di fare uno scherzo o di spaventare la vittima. Al contrario, nel caso di specie, l’ARMENI non solo aveva puntato l’arma, ma aveva sparato uccidendo il LUCENTINI, a dimostrazione del fatto che proprio questo fosse il suo intendimento, in special modo se rapportato ad un soggetto aduso all’utilizzo di armi, oltre che cacciatore.

Correttamente, pertanto, la Corte di Assise di Appello ha ritenuto di negare la concessione delle invocate attenuanti, apprezzando, in modo preponderante, l’estrema gravità per essere lo stesso stato posto in essere da un appartenente all’Arma dei Carabinieri in danno di un collega, e la sua necessaria ricaduta sulla personalità dell’imputato, connotata negativamente anche per l’assenza di segni di resipiscenza.

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Atteso che la circostanza aggravante comune di aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito fuori dell’ambito delle sue funzioni, purché la sua qualità abbia comunque facilitato la commissione del reato, non essendo, quindi, necessaria l’esistenza di un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato immune da censure è la decisione dei Giudici del gravame, che hanno confermato la sussistenza di detta aggravante, osservando in modo logico che l’ARMENI non solo aveva utilizzato l’arma di servizio del collega, ma aveva anche approfittato di circostanze di tempo e di luogo strettamente legate all’attività lavorativa svolta da entrambi, alla fine del turno e all’interno del cortile della caserma.

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