Avvocato Militare

Appuntato dei Carabinieri scrive su Facebook che i suoi superiori sono come «due bambini» e come «psicopatici in divisa». La condanna “screenshots non necessari”

Il Tribunale Militare di Napoli condannava nel 2016 un Appuntato scelto dei Carabinieri, alla pena di mesi due di reclusione militare per diffamazione aggravata e cioè per avere offeso la reputazione dei suoi superiori (nello specifico, il comandante della Compagnia ed il comandante del NORM) pubblicando sul suo profilo Facebook frasi che indicavano i predetti superiori come «due bambini» e come «psicopatici in divisa».

Secondo il Tribunale Militare non poteva esservi dubbio sull’identificazione dell’utilizzatore dell’account, giacché era stato registrato da una persona che aveva indicato quale nome e cognome quello dell’appuntato, dichiarando di lavorare nei Carabinieri e pubblicando fotografie in cui era riconoscibile anche la moglie; le frasi poi erano giudizi negativi gratuitamente offensivi, espressi con un linguaggio non rispettoso della continenza, le quali accusavano i superiori gerarchici (pacificamente riconoscibili) di essere deludenti, molesti e psicopatici, in un ambito di critiche feroci di cui chi scriveva era pienamente consapevole, tanto nel significato quanto nella diffusione di simili frasi su di un social network.

La Corte Militare di Appello

La Corte Militare di Appello nel 2017 confermava la condanna di primo grado, rilevando che le persone offese erano chiaramente desumibili in via deduttiva e lo stesso imputato non aveva negato la paternità delle frasi offensive, sia pure sostenendo che erano dirette ad altri individui (che però, per età anagrafica, erano evidentemente diversi dai superiori gerarchici offesi); quanto alla mancanza degli screenshot, le testimonianze assunte erano state concordi e univoche sulle immagini apparse su Facebook, per cui vi era prova piena della diffamazione.

Non si accoglieva, inoltre, la prospettazione di un diritto di critica, in quanto le offese erano state commesse in assenza di un fatto assunto ad oggetto di critica, ma erano generiche, e la motivazione che egli poi aveva offerto (il suo mancato trasferimento a Palermo) non era mai stato indicato nei messaggi.

Ricorso in Cassazione

In Cassazione la difesa ha lamentato che in mancanza degli screenshot le mere testimonianze non potevano contribuire alla concreta attribuibilità al ricorrente delle frasi offensive, visto che non era stato possibile rinvenire il codice identificativo dell’utente, sostenendo altresì che al caso andava applicata la scriminante del diritto di critica, che, visto il contesto particolare ed il dispiacere del mancato trasferimento, aveva determinato una dialettica anche dura, ma non diffamatoria.

La decisione della Suprema Corte

Per la Corte le doglianze del ricorrente sono infondate. Per quanto concerne la manca degli screenshots, le numerose testimonianze hanno comunque fatto raggiungere l’evidenza della diffamazione: infatti – sottolinea la Suprema Corte – l’oggetto della testimonianza può essere una comunicazione o una dichiarazione di contenuto narrativo, e le comunicazioni rilevanti possono essere non soltanto verbali, ma altresì espresse in forma scritta o con qualsiasi altro mezzo. Quanto, infine, alla incertezza sull’utente, le indicazioni ricavabili dalle due sentenze di primo e secondo grado, hanno correttamente eliminato le incertezze, facendo riferimento al nome con il quale il ricorrente era noto ai colleghi ed alle fotografie nell’account che lo ritraevano in divisa, in una autovettura di servizio nonché insieme alla moglie.

Nelle dichiarazioni del ricorrente – inoltre – non vi è mai stata una indicazione precisa dei fatti oggetto dell’asserita mera critica e nel testo contestato non vi era alcun cenno al mancato trasferimento in altra sede di servizio. Al contrario, nel post vi erano soltanto frasi offensive, che indicavano i suoi comandanti come «bambini» e come «psicopatici in divisa. La Suprema Corte ha quindi dichiarato il ricorso inammissibile, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma alla cassa delle ammende di 3.000,00 euro.

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