Carabinieri senza bodycam e dashcam la verità appartiene a un video cancellato?
L‘indagine sull’inseguimento mortale di Ramy a Milano riapre una ferita mai rimarginata: quella di una modernizzazione tecnologica iniziata e mai completata. Oltre un decennio fa, sulle Alfa Romeo 156 in dotazione ai Carabinieri, comparvero le prime telecamere di bordo. Apparecchiature forse ingombranti, tecnologicamente primitive rispetto agli standard attuali, inizialmente pensate più per documentare infrazioni stradali che per garantire trasparenza operativa. Ma era un inizio, un tentativo pionieristico poi abbandonato. Un progetto promettente, spento sul nascere.
QUANDO LA TECNOLOGIA FA LA DIFFERENZA
L’obiettivo iniziale poteva essere limitato al controllo della velocità, ma la strada tracciata era quella giusta: documentare oggettivamente ciò che accade durante il servizio. Un’intuizione che, se sviluppata nel tempo, avrebbe potuto evolvere naturalmente verso l’attuale concezione di trasparenza operativa. Oggi, mentre la Procura milanese indaga su sei carabinieri e si rincorrono le ipotesi su un video amatoriale presumibilmente cancellato, quella scelta di abbandonare il progetto appare come un’occasione mancata. Le bodycam sulle divise e le dashcam sui veicoli avrebbero potuto raccontare, senza filtri e senza dubbi, cosa è realmente accaduto quella notte in via Ripamonti.
L’ESPERIENZA INTERNAZIONALE
In diversi paesi europei e negli Stati Uniti, questi dispositivi sono già parte della dotazione standard delle forze dell’ordine. L’obiettivo è duplice: documentare le operazioni e tutelare sia gli operatori che i cittadini.
IL CASO SPECIFICO: QUANDO UN VIDEO PUÒ FARE LA DIFFERENZA
La vicenda di via Ripamonti è emblematica di come la tecnologia potrebbe cambiare il volto delle indagini. Immaginiamo per un momento cosa sarebbe successo se quella notte le auto dei carabinieri fossero state dotate di dashcam e i militari di bodycam: nessun dubbio, nessuna zona grigia, nessuna ipotesi di depistaggio.
L’intera sequenza dell’inseguimento sarebbe stata cristallizzata in video: l’alta velocità, le traiettorie, le manovre. Ma soprattutto, quel punto cruciale che oggi è al centro delle indagini – il presunto contatto tra l’auto di servizio e lo scooter – sarebbe stato documentato in modo inequivocabile. Non ci sarebbe stato bisogno di affidarsi a testimonianze contrastanti o a video amatoriali poi presumibilmente cancellati.
Gli inquirenti avrebbero avuto a disposizione fin dal primo momento materiale oggettivo su cui lavorare. Le perizie tecniche, ora indispensabili per ricostruire la dinamica, avrebbero potuto contare su elementi certi e non su deduzioni e ipotesi. La stessa consulenza cinematica, affidata all’ingegner Romaniello, avrebbe potuto concentrarsi su aspetti più specifici anziché dover ricostruire l’intera dinamica quasi da zero.
Ma c’è di più: la presenza di registrazioni ufficiali avrebbe probabilmente evitato il filone più delicato dell’inchiesta, quello sul presunto depistaggio. Non ci sarebbe stato alcun video amatoriale da cancellare, nessun dubbio sulla gestione delle prove, nessuna necessità di indagare sui telefoni dei militari.
In definitiva, quella che oggi è un’indagine complessa che vede coinvolti i carabinieri, con ipotesi di reato che vanno dall’omicidio stradale al depistaggio, avrebbe potuto essere molto più lineare e trasparente. Con beneficio per tutti: per la giustizia, per i familiari della vittima, e per gli stessi militari dell’Arma.
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