Editoriale

Paghe di lusso a Palazzo Chigi, ma quanto danno ai militari?

La polemica di questi giorni tra l’economista Tito Boeri, già presidente dell’Inps, e il ministro della Difesa, Guido Crosetto, riporta in primo piano il ruolo dei militari in una società democratica. L’ideale di un mondo senza armi è pienamente condivisibile, ma a volte si scontra con la cruda realtà: se uno dei membri della comunità viola il diritto internazionale e attacca il vicino, la legittima difesa nella nazione aggredita diventa priorità. E quanto sta accadendo da un anno nel cuore dell’Europa, con l’invasione russa in Ucraina, ne è la dimostrazione. Ma, proprio per questo, la lite tra Boeri e Crosetto può risultare sterile, poiché non affronta la vera questione: se tagliamo ancora stipendi e pensioni, tra dieci anni chi sarebbe così temerario da arruolarsi o rimanere nelle forze armate?

La domanda non è solo teorica. Il crollo demografico che ha investito l’Italia avrà presto le sue conseguenze nei corpi dello Stato, militari e civili. Non soltanto in marina, aeronautica ed esercito: anche tra i vigili del fuoco, la polizia, oltre a guardia di finanza e carabinieri, che a loro volta dipendono dal ministero della Difesa. Come pensiamo di riempire il vuoto? Forse arruolando soldati cubani, come sta facendo la Regione Calabria con i medici? Sarebbe utile cominciare a discutere in tv e sui social di cosa sarà questa Italia senza figli, per progettare il nostro futuro. E non soltanto recriminare sugli errori passati e presenti.

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Perché Guido Crosetto ha ragione

Tito Boeri critica il fatto che il 60,5 per cento delle spese militari italiane vengano assorbite dai costi per il personale: “Ci sono più marescialli e ufficiali che soldati semplici in Italia – segnala con una tabella su Twitter il professore dell’Università Bocconi –. I dati del ministero della Difesa ci dicono che ci sono 63mila 500 marescialli e ufficiali contro 26mila militari di truppa”. Il ministro Crosetto risponde che “questi dati rappresentano visivamente un antico problema della difesa italiana: il fatto di avere spese di esercizio ed investimento troppo basse rispetto a quelle del personale”. Praticamente le forze armate possono tagliare su progetti e forniture, ma non possono lasciare senza stipendio i dipendenti che hanno arruolato. E su questo il ministro ha ragione.

Non solo. Dalla tabella “Situazione del personale militare” che ripubblichiamo qui sopra, Boeri prende soltanto il numero dei “militari di truppa”: cioè, come è scritto, volontari in ferma breve, volontari in ferma prefissata quadriennale, volontari in ferma prefissata annuale. Quindi militari a tempo determinato, che sono comprensibilmente una minoranza, visto che il servizio di leva obbligatorio non esiste più. Il professore dimentica però di considerare i “Graduati”: cioè i volontari in servizio permanente, che sono 55.935 soldati nei vari gradi di caporal maggiore o equivalenti. Ed è auspicabile che in un servizio militare a vita, chi si arruola acquisisca dopo qualche tempo anche professionalità e qualifica. Ma già così la somma dei livelli più bassi delle forze armate sale a quasi 82.000 dipendenti. Se poi aggiungiamo i 18.200 sergenti, naturale progressione di carriera dei caporali, si arriva a oltre centomila unità. Il confronto corretto, rispetto ai dati forniti da Boeri, sarebbe quindi tra 63.500 marescialli e ufficiali e 100.356 militari di grado inferiore: che uniti agli allievi delle accademie e delle scuole militari, danno il totale di 166.500 appartenenti alle forze armate in servizio in Italia nel 2022.

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Un altro grafico pubblicato da Boeri sul suo profilo Twitter, che pone l’Italia ai primi posti in Europa per i costi percentuali del personale, rivela una realtà più complessa. Come il fatto che abbiamo ridotto più di altri le spese in infrastrutture militari. Ma anche che, con il 28,9 per cento del budget, siamo davanti a Germania e Francia per investimenti in equipaggiamento, ricerca e sviluppo. Anche se poi siamo praticamente sprovvisti di carri armati efficienti. La legge di bilancio del 2022 ha assegnato al ministero della Difesa 25 miliardi e 956 milioni, il 3,2 per cento delle spese finali dello Stato. Di questi, il 28 per cento è stato assegnato alle attività dei carabinieri. Per avere un termine di confronto, alla sanità pubblica e convenzionata sono stati destinati lo scorso anno 131 miliardi.

E Mario Draghi chiamò l’esercito

Un altro tema sono gli stipendi. Di che cifre stiamo parlando? Dalle paghe lorde annue pubblicate in Gazzetta ufficiale e sul sito del ministero, ricaviamo queste somme nette al mese: primo caporal maggiore 1.288 euro, maresciallo capo 1.648 euro, capitano 1.793 euro, colonnello con più di 23 anni da ufficiale 2.219 euro, generale di brigata 3.536 euro, generale di corpo d’armata 5.147 euro.

Nel calcolo, è stato immaginato un caporal maggiore senza famiglia a carico, mentre per gli altri gradi viene considerata una famiglia a carico con moglie e due figli. Sono esclusi da qui gli straordinari, in gran parte non pagati. E le indennità di missione e di rischio, che dipendono dai vari tipi di impiego. Il giuramento di fedeltà alla Repubblica prevede infatti la dedizione totale, anche al costo della vita. Ma nella carriera ordinaria, queste sono le cifre. Molto meno di un qualsiasi funzionario della Presidenza del Consiglio che, senza particolari pericoli operativi, guadagna circa 92.000 euro lordi l’anno, 3.997 netti al mese. Mentre per i dirigenti di Palazzo Chigi, Protezione civile compresa, già prima della pandemia lo Stato spendeva fino a 233.447 euro lordi l’anno, circa 9.200 euro netti al mese. Stipendi di lusso che non dipendono dal governo in carica. Poi però, per riorganizzare la campagna dei vaccini contro il covid (e fermare il colossale spreco dei gazebo di plastica da quattrocentomila euro l’uno), il premier Mario Draghi ha dovuto chiamare l’esercito. (di Stefano Gatti per Today)

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