Italia indifendibile? generali confusi, politici assenti e una difesa da rottamare
Il grido del generale Tricarico: «Se fossimo colpiti come Israele, saremmo impotenti»
«Se oggi l’Italia fosse attaccata come lo è stata Israele dall’Iran, non avremmo la capacità di difendere i nostri cittadini, le nostre città». Sono parole secche, chirurgiche, quelle pronunciate dal generale Leonardo Tricarico, già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e oggi presidente della Fondazione Icsa, che fotografano senza retorica il deserto strategico in cui si trova la difesa italiana.
Tricarico non si limita a denunciare una generica “debolezza”, ma entra nel merito delle falle sistemiche. Secondo lui, i tre settori critici sono l’antiaerea, la cyberdifesa e l’esercito. Il numero di militari disponibili è «insufficiente», anche a causa di una «crisi vocazionale» che ha reso il mestiere delle armi sempre meno appetibile.
Il comparto cyber, dice, è il più arretrato e il più invalidante: «Siamo così in ritardo che per trovare personale abbiamo dovuto abbassare l’asticella da un livello universitario a quello di scuola tecnica».
A mancare, oltre agli esperti, sono anche i materiali: «I granai sono vuoti, mancano bombe, proiettili, missili. Molti gruppi da combattimento sono assegnati alla NATO, ma per superare le ispezioni si fanno acrobazie contabili. È disastroso».
Il generale punta il dito anche contro l’operazione Strade Sicure, definendola un errore prolungato: «Settemila militari sottratti ai ranghi per operazioni di facciata. Questi uomini vanno recuperati subito: aumentano la sicurezza percepita, ma solo in misura minima quella reale». Per Tricarico è ora di mettere mano anche alla riserva militare, richiamando in servizio ex professionisti, piloti e istruttori, magari anche ultra 70enni, per liberare le forze giovani da compiti addestrativi. Ma il giudizio più netto arriva sul piano strategico: «L’Esercito è quello messo peggio. La Marina vive su un altro pianeta e sogna portaerei a propulsione nucleare. Non mi pare una priorità». A fronte di minacce ibride, attacchi informatici e guerre convenzionali ai confini dell’Europa, l’Italia resta impreparata. E non si tratta di un problema recente.
Quindici anni di errori: tra austerità, feticismi e assenza di strategia
La crisi della difesa italiana non è figlia del caso, né responsabilità di un singolo governo. È il frutto di quindici anni di scelte sbagliate, spezzettate, ideologiche o puramente contabili. Una delle svolte più impattanti fu la riforma Di Paola, varata tra il 2011 e il 2012, che avrebbe ridotto pesantemente gli organici e bloccò le assunzioni.
All’epoca, l’obiettivo dichiarato era «snellire e razionalizzare». Il risultato è stato un drastico invecchiamento del personale e una carenza strutturale di ricambio generazionale, con effetti devastanti sull’operatività. La politica ha tagliato, ma i vertici militari non hanno mai realmente alzato la voce, limitandosi a gestire compartimenti stagni e ad alimentare il campanilismo interforze.
Ogni Capo di Stato Maggiore, a seconda della forza armata di provenienza, ha finito per favorire il proprio “feudo”: la Marina ha avuto le navi, l’Aeronautica i jet, l’Esercito…. le briciole. E l’Arma dei Carabinieri, pur essendo formalmente una forza armata da venticinque anni, non ha mai espresso un Capo di Stato Maggiore della Difesa.
Nel frattempo, mentre si investiva in portaerei o F-35, si lasciavano i carri armati a marcire nei depositi: vetusti, inutilizzati o mai cannibalizzati per mantenere in vita i pochi ancora funzionanti. Una scelta miope, che oggi appare anacronistica alla luce della guerra russo-ucraina, dove i carri e la fanteria pesante si sono dimostrati decisivi tanto quanto i droni.
È il segno più evidente di una difesa guidata più da inerzie burocratiche che da visione strategica. Lo Stato Maggiore della Difesa, nel suo complesso, ha mostrato in questi anni una preoccupante assenza di leadership operativa e di pensiero strategico, limitandosi a gestire equilibri interni e spending review.
Cyberdifesa e intelligence: il vuoto dove serve il cervello
Le parole di Tricarico sulla cyberdifesa non sono nuove, ma stavolta colpiscono perché dette da un uomo che è stato nel cuore delle strutture operative. L’Italia non solo non ha una forza cyber autonoma, ma non riesce nemmeno ad attrarre giovani talenti. Mancano stipendi adeguati, percorsi chiari, riconoscimenti. E soprattutto manca una intelligence militare efficace, davvero operativa, capace di supportare le Forze Armate nei teatri esteri e nella raccolta di dati strategici.
Le addettanze militari presso le ambasciate, che sulla carta dovrebbero essere veri e propri avamposti strategici per l’intelligence e la diplomazia di difesa, sono oggi ridotte a meri uffici protocollari. Strutture burocratizzate, ingessate, spesso più attente alle cerimonie che all’intercettazione di segnali deboli. Eppure in un’epoca di guerra ibrida – dove l’informazione è arma e il tempo è munizione – questa inefficienza equivale a una falla strutturale nella sicurezza nazionale.
Queste addettanze necessitano di una riforma radicale, sia nei criteri di selezione che nella durata e nell’operatività degli incarichi. Serve una rete agile, tecnicamente preparata, interconnessa con il comparto intelligence e capace di produrre analisi tattica e strategica, non solo report di cortesia. Abbiamo interpellato direttamente il Ministro della Difesa, Guido Crosetto, per porre alcuni quesiti su questa anomalia sistemica: al momento nessuna risposta è giunta. Ma, con o senza il contributo del ministro, pubblicheremo a breve un dossier documentato e dettagliato su questo nodo critico dell’apparato militare italiano.
Nel mondo reale – quello fatto di sabotaggi digitali, attacchi ransomware e infrastrutture da proteggere – l’Italia continua ad affidarsi a strutture frammentate e sotto-finanziate. Anche quando si tratta di proteggere ospedali, centrali energetiche, o reti logistiche. Tricarico è netto: chi dice “meglio spendere per gli ospedali che per la difesa” dovrebbe sapere che gli ospedali possono collassare anche per un attacco informatico.
Iron Dome? Sì, ma non per tutti
L’idea, lanciata anche dal ministro Crosetto, di dotare l’Italia dell’Iron Dome israeliano può affascinare. Ma è un sogno molto costoso. Una singola batteria ha un costo che può arrivare ai 100 milioni di dollari, ogni intercettore costa tra 40 e 100 mila dollari, e l’intero sistema copre un’area limitata. Per proteggere davvero tutto il territorio nazionale servirebbero miliardi di euro.
L’Iron Dome potrebbe avere senso solo in chiave puntuale, a difesa di hub strategici, non come ombrello generalizzato. Ma anche qui, servirebbe una pianificazione accurata, una definizione chiara delle priorità. E una catena di comando capace di decidere. Tutte cose che, ad oggi, mancano completamente.
Un esercito che invecchia: la trincea non è una casa di riposo
Mentre il governo Monti, nel pieno della crisi economica, tagliava organici e bloccava il turn over nelle Forze Armate, l’età pensionabile restava invariata a 60 anni. Il risultato? Oggi ci ritroviamo con Forze Armate sempre più anziane, dove l’asticella anagrafica si alza inesorabilmente, senza che nessuno abbia il coraggio di affrontare seriamente la questione. E no, non si può chiedere a un cinquantenne – o peggio, a un sessantenne – di stare in prima linea. Può succedere in casi eccezionali, certo, ma non può diventare la normalità vedere interi plotoni composti da personale vicino alla pensione.
La guerra moderna richiede resistenza, riflessi pronti, capacità fisica e mentale. Tutto ciò che, fisiologicamente, si affievolisce con l’età. Una mobilità intelligente sarebbe la soluzione più logica: superati i 50 anni, il personale andrebbe ricollocato in compiti non operativi, nella riserva attiva, nell’addestramento, nell’amministrazione o in funzioni di supporto. Questo vale per l’Esercito, ma anche per l’Arma dei Carabinieri, che oggi troppo spesso espone uomini maturi in servizi ad alto rischio.
Emblematica e tragica, in questo senso, è la recente scomparsa del Brigadiere Carlo Legrottaglie, deceduto durante un intervento operativo. Un caso che dovrebbe interrogare tutti, invece di passare in silenzio come semplice fatalità. Un Paese serio non manda chi è prossimo alla pensione al fronte.
Una nazione senza strategia
Il problema della difesa italiana non è solo di risorse, ma di idee, visione e comando. Le Forze Armate sono oggi appesantite da personale anziano, mal dislocato, impegnato in compiti impropri e in strutture inutili. La catena politico-militare che dovrebbe guidarle non ha il coraggio di riformare, di rischiare, di costruire una strategia unitaria. Si va avanti per inerzia, con riforme di facciata e vertici più preoccupati di non disturbare gli equilibri interni che di vincere una guerra – reale o informatica.
Stare davvero dalla parte delle Forze Armate non vuol dire versare lacrime ai funerali, scrivere comunicati di solidarietà quando un militare o un poliziotto finisce sotto inchiesta per aver fatto il proprio dovere, o inginocchiarsi teatralmente davanti a una bandiera. Vuol dire sporcarsi le mani con riforme vere, urgenti e coraggiose. Vuol dire garantire dignità, sicurezza e futuro a chi ogni giorno difende questo Paese con onore, silenzio e sacrificio.
Finché sarà così, continueremo a spendere tanto per restare indifesi. Ma almeno, grazie a voci come quella di Infodifesa, nessuno potrà più dire: non lo sapevamo.
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