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FORZE DI POLIZIA, RICORSO PREVIDENZA COMPLEMENTARE: CONDANNATI PER CAUSA TEMERARIA

(di Eliseo Taverna) – Non
sempre chi cerca di ottenere giustizia riesce ad averla, anzi troppo spesso
seppur in presenza di elementi che rendono fondate le proprie ragioni, per una
serie di circostanze difficili da comprendere ma soprattutto da accettare, non
si riesce a dimostrarne la bontà e, quindi, a riavere indietro il maltolto.

Nessuno, però, avrebbe mai
immaginato che coloro che per anni hanno
cercato giustizia per ottenere una pensione più dignitosa ed in grado di
permettere loro di vivere una vecchiaia più serena rispetto a quella che uno
Stato inadempiente gli ha ingiustamente determinato, sarebbero stati condannati
al pagamento di una sanzione pecuniaria di mille euro, ognuno, dalla Corte
d’Appello di Perugia.
Le accuse che vengono mosse
loro (secondo il Consigliere che ha emesso la sentenza) sono quelle di aver
intentato una lite “temeraria”, evidentemente basata su pretese infondate e
chiamando in causa un Giudice non competente per giurisdizione (il Tar anziché
la Corte dei Conti).

E’
il caso, appunto, di centinaia di appartenenti alle Forze di Polizia che da
anni cercano in tutti i modi ed in tutte le sedi di vedersi riconosciute le
proprie ragioni in merito al mancato avvio della previdenza complementare per
tutto il personale del comparto difesa e sicurezza.
Il nocciolo del problema
origina dal riordino del sistema pensionistico avvenuto con la legge 335/95,
meglio conosciuta come riforma Dini; una norma che mutò radicalmente e
sostanzialmente il sistema di calcolo delle pensioni, passando dal sistema
retributivo in vigore fino a quel momento, a quello misto per coloro che al 31
Dicembre 1995 non avevano maturato diciott’anni di contribuzione ed a quello
contributivo puro per i nuovi assunti a far data dal primo Gennaio 1996.
Il gap economico che si sarebbe
generato sui trattamenti pensionistici derivanti dal nuovo metodo di calcolo –
ovviamente molto meno vantaggioso rispetto al precedente ed attuato proprio per
cercare di riequilibrare la sostenibilità finanziaria dell’intero sistema
pensionistico italiano che, fino a quel momento, era stato estremamente
generoso con una molteplicità di categorie di lavoratori – si sarebbe dovuto colmare con l’avvio, da parte dello Stato, del
secondo pilastro della previdenza, la cosiddetta “previdenza complementare”.
La costituzione dei fondi
pensione di settore, tuttavia, stentò a decollare per diverse categorie di
lavoratori, in particolar modo quelli pubblici, che li videro materializzarsi
solo dopo parecchi anni, mentre per il
personale del comparto difesa e sicurezza non furono mai avviati, con danni
economici incalcolabili per i singoli dipendenti di questo settore.
Da qui nasce l’evidente
inadempienza dello Stato – che i ricorrenti hanno cercato di portare alla luce
– in quanto con il proprio agire ha condannato intere generazioni di
appartenenti al comparto sicurezza-difesa ad un futuro pensionistico
estremamente labile ed incerto; è stato stimato, infatti, che le maggiori
penalizzazioni ricadranno su coloro che
sono stati assunti dopo il primo Gennaio 1996, in quanto all’atto della
quiescenza percepiranno una pensione che non supererà il 50% dell’ultimo
stipendio.
La previdenza complementare –
che si sarebbe dovuta alimentare con il TFR del singolo dipendente e con delle
quote paritetiche mensili volontarie stabilite dal contratto di lavoro,
ripartite tra il dipendente ed il datore di lavoro – avrebbe permesso di poter
potenzialmente recuperare la perdita economica derivante dal nuovo sistema di
calcolo.
Ad onor del vero, tuttavia, c’è
da evidenziare anche l’incertezza di rendimento che i fondi pensione costituiti
per gli altri comparti hanno generato in questi anni, fino al punto da mettere
in discussione persino la validità di questo strumento previdenziale
aggiuntivo.
Ma questa è un’altra storia è
con altri risvolti, perché quello che emerge dalla vicenda in esame, invece, è
una vera e propria perdita di change che gli appartenenti al comparto hanno
subìto, essendo stata loro preclusa la possibilità di aderire ai fondi
pensione, così come la legge 335 del 95 aveva a suo tempo stabilito.
Quello che lascia l’amaro in
bocca, peraltro, risiede proprio nel fatto che il personale del comparto nel
corso degli anni, prima d’intraprendere la via giudiziaria, ha percorso ogni
tipo di iniziativa, sia di natura politica sia sindacale, mediante i Co.Ce.R. e
le OO.SS., per cercare di porre rimedio a questa stortura non da poco conto, ma
la congiuntura economica del Paese, troppo spesso sbandierata all’occorrenza,
unita all’indifferenza della classe politica che si è succeduta negli anni, non
ha permesso di sanare questa grave sperequazione, che finirà per condannare
centinaia di migliaia di appartenenti al comparto ad un futuro pensionistico da
fame.
Da qui nasce, quindi, la scelta
dei ricorrenti d’intraprendere la via giudiziaria che, nel Gennaio 2009, si
materializzò in uno specifico ricorso al TAR Lazio, a parere di molti esperti
con un percorso e con una competenza di giurisdizione che non del tutto chiara
e certa, contrariamente da quanto affermato nella sentenza di condanna emessa
dalla Corte d’Appello di Perugia.
Fin da subito, infatti, si è
assistito alla presentazione di numerosi ricorsi, da parte dei vari legali dei
ricorrenti, che in modo disomogeneo hanno adito chi il TAR, chi la Corte dei Conti
e chi persino il Giudice del lavoro, proprio a dimostrazione della confusione e
dell’incertezza giuridica che connotava la particolare tematica.
Nel caso in esame la sentenza
di primo grado, emessa dal TAR e pubblicata solo dopo sei anni dalla sua introduzione,
nonostante erano state presentate numerosi solleciti – cosiddette istanze di
prelievo – si limitava esclusivamente a ritenersi non competente in materia per
difetto di Giurisdizione ed individuava, nel contempo, la competenza della
Corte dei Conti.
Nessuna censura, pertanto,
verso i ricorrenti né tantomeno la loro condanna al pagamento delle spese di
giustizia che venivano compensate tra le parti.
Il problema nasce nel momento
in cui i ricorrenti hanno presentano istanza, alla Corte d’Appello di Perugia, per equa riparazione in base all’art.
2 della Legge 89/2001 (c.d. legge Pinto)
che stabilisce la ragionevole
durata di un processo in un periodo massimo di tre anni, per il primo grado.
In questo caso il giudizio
dinanzi al TAR ha avuto una durata di quasi sei anni, quindi tre anni ben oltre
quanto stabilito dalla legge, nonostante non vi fosse l’esigenza di svolgere
alcuna particolare attività valutativa da parte del Giudice. L’art 2 bis della
Legge Pinto, peraltro, individua la misura dell’indennizzo, che deve essere
equamente liquidato dal Giudice nei confronti dei ricorrenti, in una somma di
denaro non inferiore a 500 euro e non superiore a 1500 euro per ciascun anno o
frazione di anno maggiore di sei mesi.
Appare, pertanto, illogico ed
iniquo che, in uno Stato democratico, dipendenti dello Stato che si spendono
ogni giorno per la salvaguardia delle istituzioni, debbano ricevere dopo
vent’anni di inadempienze dello Stato per il quale lavorano, un trattamento del
genere; prima l’inottemperanza ad una precisa legge che istituiva la previdenza
complementare, poi l’indifferenza della
classe politica ed infine non solo il mancato riconoscimento – per via
giudiziale – dei loro diritti violati, ma anche l’accusa, con tanto di condanna
al pagamento di una pena pecuniaria di mille euro ognuno a favore della cassa
delle ammende, di aver intentato una causa cosiddetta “temeraria”.

A questo punto “la palla”
passerà nuovamente alla giustizia, sempre alla Corte d’Appello di Perugia, ma
ad un altro Giudice questa volta perché i ricorrenti, nonostante l’amarezza,
appaiono intenzionati a dare ancora battaglia e per questo hanno presentato un
nuovo ricorso contro il giudizio di condanna che ritengono estremamente
ingiusto, infondato e che rasenta il paradosso.

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