Concorso Commissario Polizia, il Consiglio di Stato: “Tutto da rifare”
(di Avv. Umberto Lanzo) – Una recente sentenza del Consiglio di Stato rischia fa saltare il concorso per commissari della Polizia di Stato e rimescola le carte in tavola. I giudici di Palazzo Spada hanno infatti accolto il ricorso di un candidato interno ordinando al Ministero dell’Interno di rifare da capo le prove orali per tutti i partecipanti alla selezione riservata al personale già in servizio. Una decisione pesante come un macigno, che potrebbe stravolgere la graduatoria e le aspettative di decine di futuri funzionari.
L’origine della vicenda
Il caso trae origine da una precedente sentenza del 2023, con cui il Consiglio di Stato aveva annullato parte degli atti del concorso interno per l’inadeguatezza dei criteri utilizzati dalla commissione esaminatrice per valutare i colloqui orali. Un vizio procedurale grave, che avrebbe dovuto portare al rifacimento totale di quella fase della selezione. E invece no.
Il Viminale ha “eluso” il giudicato
Nell’eseguire la sentenza, infatti, il Viminale aveva inizialmente convocato solo il ricorrente per la nuova prova orale, lasciando agli atti le valutazioni già ricevute dagli altri candidati, alcuni dei quali erano stati addirittura dichiarati vincitori. Una modalità che ha subito fatto storcere il naso agli stessi giudici amministrativi.
Nella sentenza depositata il 30 maggio 2024, la Seconda Sezione del Consiglio di Stato boccia senza appello l’operato del Ministero dell’Interno, ravvisando un’aperta violazione del precedente giudicato. Secondo i giudici, rifare il solo orale al ricorrente non basta: bisogna ripartire da zero per tutti i partecipanti al concorso interno.
A pesare è stata la natura stessa del vizio rilevato in primo grado, cioè la mancata predeterminazione di “criteri di massima sufficientemente specifici per l’attribuzione dei voti” alle prove orali. Un’inadempienza “genetica” che, per il Consiglio di Stato, rende “inconcepibile logicamente” che le valutazioni già espresse possano valere per alcuni candidati e non per altri.
“Rifare gli orali ad armi pari”
Non si può concepire, insomma, che l’atto viziato venga “sanato” solo per alcuni e non per altri. Le armi della selezione, parafrasando la sentenza, devono essere nuovamente “pari” per tutti i concorrenti. Altrimenti si creerebbe una palese discriminazione e un’ingiustizia sotto il profilo della par condicio dei partecipanti.
Il Consiglio di Stato ha quindi dichiarato nulli gli atti successivi alla mancata predeterminazione dei criteri, ordinando al Viminale di riavviare tutta la fase relativa alle prove orali facendo “tabula rasa” del precedente operato della commissione esaminatrice. Una beffa per i 19 candidati interni già dichiarati vincitori, che si vedranno costretti a rimettere in discussione un risultato che sembrava blindato.
Il Consiglio di Stato è stato inoltre chiaro: non è sufficiente ampliare i posti o inserire il ricorrente in soprannumero. L’interesse del ricorrente è tutelato solo se tutti rifanno gli orali ad armi pari, potendo così ambire alla miglior posizione possibile in graduatoria.
Il Ministero costretto a ripartire da zero
L’effetto domino della sentenza potrebbe però estendersi ben oltre il concorso interno, toccando anche gli 81 vincitori della parallela selezione per commissari aperta agli esterni. Molti di loro, infatti, hanno già completato il corso di formazione insieme ai 19 “colleghi” interni, i cui giudizi finali sono ora da rivedere. Un vero e proprio sciame sismico per il Viminale, che si trova ora con un bel po’ di grane da districare.
Ma a rimetterci, ora, potrebbero essere anche decine di altri candidati, dentro e fuori la Polizia di Stato, per i quali l’agognata promozione a commissario potrebbe allontanarsi ancora una volta, in attesa di un nuovo, regolare esame orale. Il caos, purtroppo, è solo all’inizio.
La Condanna alle spese
Il Consiglio di Stato ha duramente bacchettato l’operato dell’Amministrazione condannandola anche a pagare 3.000 euro di spese processuali al ricorrente vittorioso. Un monito salato per il Ministero dell’Interno, che non ha dato pieno e corretto corso alla pronuncia della giustizia amministrativa, attuandola in modo parziale ed elusivo, come stigmatizzato dai giudici di Palazzo Spada.
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