Editoriale

Allarme rosso per l’Ammiraglio Cavo Dragone: ‘Servono almeno 10.000 soldati in più. Continuerò a chiederli finché non mi cacceranno’

Il capo di Stato maggiore della Difesa è preoccupato per l’aumento dell’impegno militare italiano all’estero al quale però non corrisponde un potenziamento degli organici. Sulla produzione di armamenti “dobbiamo rinunciare a un po’ di sovranità industriale a favore di una maggiore efficienza europea”

Le forze armate italiane sono “assolutamente sottodimensionate”. Servono come minimo 10mila uomini in più. Ma anche arrivando alla fatidica quota 170mila, saremmo comunque “al limite della sopravvivenza”. Parola del capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, intervenuto oggi in audizione in Parlamento per spiegare come “la domanda di sicurezza” sia “esplosa in tutto il mondo”. E lo scenario, anche a causa del ritorno del terrorismo, “rischia di complicarsi ancora di più”. Per questo l’ammiraglio è categorico: “Ho fatto richiesta per più uomini. Continuerò a chiedere più uomini fino a quando non mi cacciano”.

L’ammiraglio giunge a Montecitorio per illustrare la radiografia precisa dell’impegno militare italiano all’estero. Nel 2024, l’Italia prorogherà sette missioni in Europa: la Nato Joint Enterprise nei Balcani, l’Eufor Althea in Bosnia, il peacekeeping a Cipro, l’Eumam in Ucraina, la presenza in Lettonia e le operazioni Irini e Sea Guardian nel Mediterraneo. Sei in Asia: Unifil in Libano, coalizione anti-Isis, missione Nato in Iraq, l’attività di osservazione militare in India e Pakistan, nonché il personale militare impiegato in Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati Arabi. Un’altra decina in Africa: l’Unsimil in Libia, l’addestramento delle forze locali in Somalia, le missioni di cooperazione bilaterale e institution building in Tunisia e Niger, la base militare a Gibuti. E ancora: Mozambico, Burkina Faso, Sahara Occidentale e golfo di Guinea. A questo impegno multi-teatro delle nostre forze armate vanno poi aggiunte le missioni in indo-pacifico, la neonata missione Aspides anti-Houthi nel Mar Rosso, che va ad unirsi alla già esistente missione europea Atalanta, nonché l’Operazione Levante nel Mediterraneo orientale per dare sostegno umanitario ed evitare un’escalation ancora maggiore in Terra Santa.

Un impegno crescente, in uno “scenario globale già ampiamente compromesso” dove “anche il terrorismo ha rialzato la testa” e che ora “rischia di complicarsi ancora di più”. Le tensioni geopolitiche nel Mediterraneo allargato, in Ucraina, nel Mar Rosso, in Africa e nell’Indo-pacifico porterà, sottolinea l’ammiraglio, ad un aumento del coinvolgimento delle forze armate italiane all’estero dato che “la domanda di sicurezza è esplosa”. Ora “serve un sano esercizio di realismo”, ed essendo “la sicurezza un concetto laico”, fondamentale per garantire “diritti, crescita economica e coesione sociale alle popolazioni”, è necessario “dialogare con tutti”, osservando “le dovute distanze dagli affari interni dei paesi in cui cooperiamo” e lasciando “alle leadership locali” la responsabilità “di risolvere problemi strutturali”. L’esempio portato è quello del Niger, dove un doppio colpo di Stato militare, negli ultimi mesi, ha portato al potere una classe dirigente che ha immediatamente cacciato i francesi dal suolo nigerino ma ha conservato la cooperazione militare con i soldati italiani, presenti in loco in forze (250 uomini) anche e soprattutto per “osservare e capire la rotta migratoria proveniente da Sud-Ovest”.

Ci troviamo, sottolinea il prossimo presidente del Comitato militare della Nato – entrerà in carica a gennaio 2025 –, in una “dimensione operativa che è senza precedenti dal dopoguerra a oggi: dai paesi baltici, lungo tutto il fianco est della Nato, dal Medio Oriente al Corno d’Africa, dal Mar Rosso sino al Golfo di Guinea passando per il Sahel”. Le truppe italiane non sono mai state dispiegate in maniera così vasta dalla seconda guerra mondiale a oggi. E se non dovessero essere adattate in termini numerici alle nuove esigenze di sicurezza e cooperazione rischiano l’over-stretch funzionale.

“Se penso alla situazione mi metto le mani nei capelli” sintetizza in una battuta Cavo Dragone: “Abbiamo bisogno di uomini. Siamo assolutamente sottodimensionati”. La Legge Di Paola del 2012, che fissava una riduzione dello strumento militare italiano a 150mila uomini tra Esercito, Marina ed Aeronautica, è stata rivista l’anno scorso a 160mila entro il 2034. Ma “è ancora poco”. Se salissimo a 170mila, avverte Cavo Dragone, saremo “al limite della sopravvivenza”. Insomma, per affrontare l’impegno geostrategico richiesto dalle autorità politiche interne e dalle alleanze internazionali, le forze armate tricolori hanno bisogno di almeno diecimila uomini in più. Almeno. “Continuerò a chiedere più uomini fino a quando non mi cacciano” giura l’ammiraglio. Dal punto di vista della produzione di armamenti, infine, è necessario fare un passo ulteriore in direzione di una maggiore integrazione a livello continentale, tra Ue e Nato: “La messa in comune delle risorse è la via da seguire. Dobbiamo rinunciare a un po’ di sovranità industriale per creare joint venture e produrre in maniera più standardizzata, senza sprechi. Solo così possiamo capovolgere l’asimmetria operativa, ora a nostro sfavore, con Cina, Russia e Iran”.

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