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FREMM italiane ad Atene: risposta d’emergenza o schiaffo a Parigi?

Il possibile acquisto da parte della Grecia delle due fregate FREMM italiane, Carlo Bergamini e Virginio Fasan, ha scatenato malumori a Parigi. E non è difficile capire perché: dopo aver piazzato tre fregate FDI e sperando in una quarta, i francesi vedono l’offerta italiana come una penetrazione inaspettata in un mercato che ritenevano già sigillato con la cera della “partnership strategica”.

Ma attenzione: questa mossa greca non è un tradimento. È una risposta concreta all’urgenza operativa. La Marina ellenica non può permettersi di attendere il 2028 per ogni nave. La Turchia corre. E quando il vicino aumenta le sue capacità navali e militari con ritmi industriali, tu hai due opzioni: aspettare con eleganza o reagire con pragmatismo. Atene ha scelto la seconda.

FREMM e FDI: concorrenza o complemento?

Certo, le fregate FDI francesi sono più avanzate, più letali, più digitalizzate. Ma hanno un difetto: non sono ancora pronte. Le FREMM italiane, invece, sono operative, armate e disponibili subito.

È questo il punto. La Grecia non sta cambiando bandiera. Sta compensando un vuoto temporale con l’unica offerta concreta disponibile ora. Nessuna contraddizione, nessuna infedeltà. Solo realpolitik in salsa ellenica. Anzi, si potrebbe dire che le FREMM sono il ponte che permette alla Grecia di restare sulla rotta che la porterà a rafforzare ancora di più il proprio asse con la Francia.

Risposta d’emergenza o schiaffo a Parigi?

Quando Atene ha bussato alla porta di Roma per acquistare le prime due fregate FREMM classe Bergamini, l’Italia non si è limitata a dire «sì»: ha colto l’occasione per mostrare al resto d’Europa che il potere marittimo si misura anche nella capacità di agire in tempo reale. L’operazione – valutata intorno ai 600  milioni di euro – permette alla Marina ellenica di tappare immediatamente il divario con Ankara, mentre la Francia, impegnata a consegnare le sue FDI dal 2027 in poi, resta a osservare. Per molti a Parigi è un insulto; per Roma è una lezione di pragmatismo: vendere usato in perfetta efficienza è meglio che lasciarlo arrugginire in banchina o – peggio – regalarlo per motivi di «soft power». Un affare, dunque, che sposta il baricentro politico dal Tamigi alla penisola.

L’arte di vendere l’usato come leva di potere: l’intelligence navale di Roma

Dietro la stretta di mano Atene–Roma c’è, molto probabilmente, un fine lavoro di addettanze militari. L’Ufficio dell’Addetto Difesa italiano ad Atene ha sicuramente macinato dossier, briefing riservati e simulazioni per dimostrare che le Bergamini coprivano esattamente i buchi nel dispositivo ellenico. Non è filantropia: è strategia d’influenza. Vendere l’usato ad alleati fidati significa bloccare l’ingresso di fornitori extra‑UE, assicurarsi contratti di supporto e creare una dipendenza tecnica che dura almeno dieci anni. Il ministro Guido Crosetto lo sa bene: senza investire in intelligence economica e diplomazia militare, accordi simili non piovono dal cielo. Ecco perché la Difesa dovrebbe puntare ora a rafforzare gli uffici militare all’estero; chi parla di «scatole cinesi» dello Stato maggiore farebbe bene a studiarne i dividendi.

Chi teme e critica l’usato strategico?

Invece di lamentarsi per l’«affronto» fatto a Parigi, bisognerebbe chiedersi come replicare il modello: vendere unità dismesse ma perfettamente aggiornate ad alleati che ne hanno urgenza, fidelizzarli con pacchetti di manutenzione e corsi avanzati, cementare così distretti industriali che creano PIL e posti di lavoro in Italia. Se davvero si vuole un’Europa capace di difendersi da sola, serve più Italia, non meno.

Il Mediterraneo non aspetta. E neanche Erdogan. Chi resta a discutere di primogeniture industriali, rischia di trovarsi a difendere un porto… senza più flotta.

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