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2 GIUGNO, ESERCITO ITALIANO TROPPO NUMEROSO E ANZIANO. VIAGGIO FRA LE FORZE ARMATE DA RIFORMARE

(di Umberto De Giovannangeli) – I venti di guerra che sferzano il Mediterraneo.
L’impegno procrastinato dell’Italia sull’infuocato fronte afgano. E la
convinzione che, per essere rispettati negli organismi sovranazionali (Nato,
Ue, Onu), le capacità militari messe in campo sono di fondamentale importanza
per rafforzare il proprio credito politico.

Due Giugno: Festa della Repubblica. E la Repubblica
sono anche le sue Forze Armate. E il loro presente, e ancor più il loro futuro,
sono scritti nel tanto evocato e ora realizzato “Libro Bianco della
Difesa”.
Per coglierne l’essenza dell’annunciata riforma, in
questo viaggio nelle Forze Armate che cambiano, l’Huffington Post si avvale
delle competenze di uno dei più preparati analisti militari italiani: Pietro
Batacchi, direttore di RID, la Rivista italiana difesa. Anzitutto,
l’indicazione delle nostre priorità geostrategiche. Il Mediterraneo – rimarca
il direttore di RID – si configura sempre più come l’area di intervento
prioritario delle nostre Forze armate e l’area nella quale il nostro Paese
dovrà essere in grado di intervenire a tutti i livelli dello spettro operativo
(Regional Full Spectrum, RFS), assumendo anche all’occorrenza la leadership di
coalizioni internazionali. Fuori da questo contesto, l’Italia darà solo
contributi di nicchia. Questa è una svolta strategica, che definisce un
rapporto indissolubile tra strumento militare, priorità geopolitiche e
razionalizzazione delle risorse.
SVOLTA
STRATEGICA
 “Dare priorità agli
interventi nell’area euro-mediterranea”. È la fine delle missioni ovunque
e comunque. La ministra della Difesa Roberta Pinotti e il premier Matteo Renzi
hanno imboccato una direzione precisa: “Nel Mediterraneo l’Italia è pronta
per un ruolo da leader”. I nostri soldati e peacekeeper metteranno i loro
boots on the ground” solo dove l’Italia ha i suoi interessi.
Non altrove. E fuori dal Mediterraneo l’Italia non andrà mai da sola, perché si
“concorre alla sicurezza internazionale insieme agli alleati”.
Oggi le forze armate sono pensate per interventi in
ogni regione del mondo ed infatti i militari italiani sono impegnati in circa
30 missioni all’estero, in 3 continenti. Una rivoluzione rispetto agli ultimi
30 anni di politica estera e di sicurezza italiana, ma una rivoluzione
necessaria che nei prossimi mesi richiederà allo Stato Maggiore una profonda
revisione della pianificazione militare. Oggi, denuncia il Libro Bianco, le
decisioni di politica militare e industriale sono talvolta incoerenti, con le
singole Forze armate dotate di ampia autonomia e che tendono a controllare
direttamente le operazioni militari e gli investimenti. Sono moltissimi i
centri di spesa, e c’è ridondanza di infrastrutture. Domani, secondo il
documento programmatico della Difesa, tutte le decisioni politiche saranno
responsabilità del ministro; tutte le operazioni militari sotto comando
interforze, così come interforze (e coordinata con i partner europei) sarà la
pianificazione, ma anche la logistica. Inoltre sono previsti accorpamenti dei
Reparti e unificazione delle funzioni.
Quanto alla struttura delle nostre Forze Armate, il
Libro Bianco indica un livello organico di 150.000 uomini, ma per evitare il
deflagrare della bomba invecchiamento che si sta abbattendo sulle Forze armate,
chiede un significativo incremento dei Volontari in Forma Prefissata in modo
tale che in numero ragionevole di anni sia possibile riallineare la struttura
dello strumento militare italiano a quella degli altri Paesi alleati.
Per
entrare ancor più nei dettagli, “a regime – si legge – la consistenza sarà
di circa 150 mila tra servizio permanente e ferma prefissata, di cui 20.700
ufficiali, 11 mila marescialli e 118.300 sergenti, graduati e militari di
truppa”. Questo “snellimento” dovrà essere portato a regime
entro il 2024 (erano 183.000 a fine 2012 e saranno 170.000 a fine 2015).
L’obiettivo è invece quello di ridurre l’età media dei militari, per rendere
più facile utilizzarli sul campo. Come? Aumentando il personale a ferma breve
rispetto a quello in servizio permanente (ben l’87% della truppa).
Per garantire mezzi militari all’altezza delle
“nuove” forze armate, la Difesa vuole poi “assicurare
ragionevole stabilità nel tempo agli investimenti” delle aziende del
settore, e dunque evitare vicende come quella legata all’acquisto degli F35,
con il Parlamento in polemica col governo sul taglio dei caccia. La soluzione è
quella di affidare a una legge pluriennale – che copra almeno 6 anni – gli
investimenti, con la possibilità di correttivi sulla base delle condizioni
macroeconomiche. Allo stesso tempo per la prima volta si parla della creazione
di una Riserva vera – una via di mezzo tra la Riserva Specializzata di oggi e
la Guardia Nazionale americana che, per ovvi motivi di risorse, non ci possiamo
permettere – dove eventualmente far transitare anche il personale in uscita
dalla componente attiva. Una Riserva, insomma, non più composta solo da
psicologi o ingegneri e che in caso di emergenza possa far crescere gli
organici della componente attiva . Un altro punto qualificante riguarda il
rafforzamento della cultura e della natura interforze dello strumento. Di
cultura, appunto, si tratta perché da ora in avanti a livello dirigenziale si
andrà avanti solo se si avranno esperienze interforze, oltre che
internazionali, e si verrà valutati, da un certo grado in poi, solo da commissioni
composte da personale misto. Per questo si toccherà anche il regolamento del
1999, che non dava piena attuazione alle legge del 1997 sui Vertici, andando a
rafforzare davvero la figura del Capo di Stato Maggiore della Difesa che dovrà
avere il pieno comando di tutte le operazioni, esercitandolo attraverso il COI,
che sarà ancor più irrobustito, e avvalendosi anche di quelli che potremmo
definire comandi di componente. D’altro canto, nel mondo e in Europa, si conta
se si pratica, e non solo si predica, stabilità e pacificazione, orientando a
queste finalità lo stesso strumento militare.
Serve inoltre una dimensione sempre più
sovranazionale. Se gli Stati Uniti d’Europa sono il sogno da realizzare, se
l’Europa non deve essere solo una moneta unica ma qualcosa di altro e di più,
questa idea progressiva d’Europa ha bisogno di un suo esercito, di una difesa
condivisa. In questa chiave, ridurre le spese militari non significa
smantellare uno dei pilastri della politica di un Paese, la Difesa, ma orientare,
selezionare, gli investimenti in funzione del ruolo che s’intende avere sullo
scenario internazionale. Un ripensamento da collocare in una chiave europea,
sviluppando, ad esempio, una politica di Difesa integrata euromediterranea,
“modello Unifil”, la missione Onu in Sud Libano che si regge
essenzialmente sul contributo di Italia, Spagna e Francia.

VOCI
CONTRO
. “Difficile comprendere come
sia stato possibile dimenticare il Servizio Civile Nazionale nel Libro Bianco
sulla Difesa in un momento in cui il governo se n’è dichiarato il più convinto
sostenitore ed ha avviato una riforma importante volta ad estenderlo a 100.000
giovani l’anno, a fronte dei 190.000 militari che compongono le forze armate –
sottolinea Enrico Maria Borrelli, presidente del Forum Nazionale Servizio
Civile – La difesa civile e non armata del Paese è una conquista culturale che
l’Italia si candida a rappresentare in tutta Europa e nel mondo, non possiamo
permetterci di mortificarne la portata politica omettendone il racconto e
mortificando l’impegno che centinaia di migliaia di giovani hanno donato in
difesa della loro Patria.” Da tempo noi chiedevamo una riscrittura
collettiva ed aggiornata del Modello di Difesa dell’Italia – le fa eco
Francesco Vignarca coordinatore di Rete Disarmo – ed abbiamo quindi accolto
positivamente l’annuncio da parte della ministra Pinotti dell’istituzione di
questo percorso. Un annuncio apparentemente positivo in virtù delle intenzioni
di renderlo un percorso partecipato e pronto all’allargamento del concetto di
difesa, classicamente solo legato alle Forze Armate. Purtroppo non troviamo
niente di tutto questo nel documento presentato e le stesse analisi sulle
minacce e sugli interessi ed obiettivi nazionali per i prossimi anni appaiono
essere solo una piccola ricognizione legata alle strategie classiche, senza
nemmeno un’articolazione concreta sulle modalità per realizzarle davvero”.

DECOLLA
LA POLEMICA
. È lo scontro senza
fine legato all’acquisizione dei tanto contestati F-35. lI Ministero della
Difesa acquisterà “al massimo” 38 caccia militari F-35, entro il
2020. Ovvero il numero di aerei “strettamente necessario a sostituire le
capacità che saranno perse nei prossimi anni”. Dopo quella data
(l’acquisizione dei velivoli è prevista fino al 2027), il programma verrà
“rimodulato, per generare un ulteriore efficientamento della spesa”.
“Rimodulazione”, però, non significa necessariamente che l’acquisto
entro il 2027 dei 90 aerei da guerra sia definitivamente archiviato. Nei sei
anni non ancora programmati, la Difesa potrebbe decidere di comprare i 52
caccia previsti dal programma (già ridotto da 131 a 90 aerei) sottoscritto nel
2013 dall’allora ministro della difesa Giampaolo di Paola. Il costo complessivo
dell’operazione, secondo il Documento programmatico pluriennale per la Difesa
presentato al Parlamento, è stimato in “circa 10 miliardi di euro:
completamento previsto entro il 2027”.

Ma la polemica non si placa, semmai
“decolla” ulteriormente. Nei giorni scorsi, infatti, i partiti
dell’opposizione hanno sottolineato come non ci sia quel
“dimezzamento” dei fondi per l’acquisto degli F-35 previsto dalle
mozioni approvate a settembre dalla Camera. Per quest’anno ci sono 582 milioni
di euro, contro i 350 che ci sarebbero dovuti essere in caso di dimezzamento
dei fondi. Il bilancio di previsione della Difesa per il 2012, presentato
all’inizio di quell’anno, stimava i costi complessivi in 12,2 miliardi di euro
entro il 2047, più un costo per la “predisposizione” a livello
nazionale che non era specificato. 
Il costo per velivolo è passato da 70
milioni di dollari a quasi il doppio. In una scheda elaborata dalla Rete
italiana diffusa da Sel, si evince, ad esempio, ha spiegato il capogruppo alla
Camera di Sel Arturo Scotto, “che se nel 2014 gli stanziamenti per F35 erano
pari a 359,1 milioni di euro, nel 2015 si sale a 582,7”. “É uno
schiaffo all’Italia – dice a sua volta Giulio Marcon , anche lui deputato di
Sel, particolarmente attivo nel movimento per la pace – ma la commedia delle
bugie è finita visto che le carte sono state scoperte”. La replica della
Difesa non si è fatta attendere: allo stato attuale, l’Italia ha in programma
di acquistare trentotto F35 fino al 2020, quelli “strettamente necessari a
sostituire le capacità che saranno perse nei prossimi anni”, afferma la Difesa.
Il governo “accrescerà gli sforzi per ampliare il ritorno industriale e
occupazionale correlato al programma”, così “da ridurre ulteriormente
il costo complessivo per il Paese”. Già oggi, sostiene la Difesa, “a
fronte di un investimento totale pari a circa 3,5 miliardi di dollari, i
ritorni industriali in termini di contratti acquisiti sono pari a circa 1,6
miliardi di dollari”. 
Il ministero sottolinea poi come la mole
dell’acquisto sia stata notevolmente ridotta “sia rispetto ai 101 velivoli
originariamente previsti per questo lasso di tempo, sia alle diverse ipotesi
che erano state fatte nel corso degli ultimi anni”.

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