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CONFESSIONI DI UN FINANZIERE ”INCASSO TANGENTI PER LO STATO”

Memorie
di un finanziere della polizia tributaria. Si potrebbe intitolare così il
sorprendente documento esclusivo che state per leggere.

Si tratta della
trascrizione, fedele alla lettera, del disarmante sfogo di un disincantato,
onesto e preparato maresciallo della Guardia di Finanza, impegnato da diversi
lustri nei temutissimi controlli alle imprese. L’uomo, di cui evitiamo di
indicare dati anagrafici e curriculum per non renderlo riconoscibile, ha
apparecchiato per Libero uno zibaldone di pensieri, suddiviso in capitoletti,
sul suo lavoro di tutti i giorni. Che per lui è diventato un tran tran
asfissiante, capace di condurlo quasi al rigetto. Il risultato è questa spietata
radiografia che stupisce e, in un certo senso, preoccupa di un mestiere che
tanto trambusto porta nelle vite degli italiani. Infatti in questo sfogo il
militare dipinge le ispezioni delle Fiamme gialle come un ineluttabile
meccanismo stritola-imprenditori il cui obiettivo non sarebbe una vera e sana
lotta alle frodi fiscali, ma una fantasiosa e famelica caccia al tesoro
indispensabile a lanciare le carriere di molti professionisti
dell’Antievasione.
C’è
chi si è visto contestare l’acquisto della materia prima all’estero, con
l’accusa di aver evaso milioni per il solo fatto di aver comprato del cashmere
in Kashmir e non in Campania. E chi invece, all’ennesima visita della Guardia
di Finanza, si è sentito chiedere scusa per il verbale appena redatto con la
seguente motivazione: sappiamo che avete conti e imposte in ordine, ma qualcosa
che non va lo dobbiamo trovare per forza. Anzi, per esigenze superiori. Ossia
per dimostrare che la lotta all’evasione si fa sul serio e che il gettito
contestato ogni anno aumenta, rispondendo alle esigenze di far quadrare il
bilancio e di giustificare nuove e sempre crescenti spese. E anche perché sulla
presunta evasione recuperata si costruiscono carriere e si ricevono premi.

Non importa che molti di quei soldi, la gran parte se si dà retta ad Attilio
Befera, numero uno dell’agenzia delle entrate, lo Stato non li vedrà mai,
perché le ingiuste richieste del fisco saranno respinte nei vari gradi di
giudizio. Al momento, cioè quando le infrazioni vengono contestate, fanno
numero e consentono di potersi presentare di fronte all’opinione pubblica come
se si fosse sgominata una vera gang dell’evasione. Al contrario, spesso a
finire nella rete del fisco, sono piccoli e medi imprenditori, i quali pur
avendo regolarmente pagato le tasse si vedono contestare le violazioni più
assurde, con la conseguente emissione di multe salatissime. Tanti si rassegnano
e piuttosto di ingaggiare una lunga e difficile battaglia, pagando consulenti
ed esperti, versano un terzo di quel che dovrebbero.
I
grandi evasori, quelli che nascondono tutto e operano fuori dalla legalità, al
contrario festeggiano, perché fino a quando l’attenzione è rivolta su chi già
paga, possono continuare ad agire indisturbati. Infatti la Finanza mira ai
soliti noti, quelli alla luce del sole, non coloro che si nascondo nei paradisi
fiscali o che cambiano continuamente partita Iva.
È il grande bluff della lotta ai furbi, dove in realtà i furbi si rivelano
quelli che dovrebbero dar loro la caccia e le vittime diventano i contribuenti
onesti. A raccontare come lavorano gli uomini della grande macchina fiscale è
proprio uno di loro, che in un’intervista esclusiva a Libero (anonima per
evitare rappresaglie dei superiori, ma in redazione la sua identità e la sua
esperienza sono note), svela i metodi, le furbizie e le scorrettezze messe in
atto nei confronti delle imprese pur di dimostrare che lo Stato ha dichiarato
guerra agli evasori. La narrazione del grande imbroglio è incredibile. Una ad
una vengono a galla le vessazioni contro gente per bene che non si è mai
sognata di non far il proprio dovere di cittadino. Un meccanismo infernale che
non lascia scampo, perché una volta avviato deve concludersi con il
raggiungimento dell’obiettivo, ovvero con l’emissione di un verbale che porti
all’accertamento.
Così
i comandanti possono autocelebrarsi con cifre e dati non veritieri e i ministri
gonfiare il petto per i risultati raggiunti. «Quando entriamo in un’azienda
sappiamo già che dobbiamo notificare un verbale a qualsiasi costo e se bussiamo
alla porta di un imprenditore sappiamo già che non ha praticamente speranza di
salvezza». Il quadro descritto dall’ispettore è agghiacciante, perché dimostra
l’esistenza di uno stato di polizia fiscale in cui non è il rispetto della
legge, delle norme vigenti, ad essere garantito, ma il sopruso dell’Erario.
Dalle parole dell’uomo del fisco si capisce che siamo all’estorsione
legalizzata, anzi statalizzata, perché lo Stato deve mantenersi e per farlo è
disposto anche a pretendere una specie di pizzo dalle imprese, ossia un di più
non dovuto, che supera la tassazione già da primato mondiale che viene
praticata in Italia. Quella descritta nell’intervista che potete leggere in
queste pagine non è altro che una tangente fiscale, pretesa senza vergogna da
uomini mandati dallo Stato e che quello Stato rappresentano. E poi si chiedono
perché le aziende scappano all’estero. Al contrario ci sarebbe da interrogarsi
sul perché molti imprenditori continuino a rimanere ancora qui.

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