Tra pochi mesi la Croazia ripristinerà la leva obbligatoria: un ritorno carico di tensioni
A partire dal 2026 i giovani croati torneranno a indossare la divisa. Ma dietro l’apparente ritorno al patriottismo si nasconde una riforma che sta spaccando il Paese: tra incentivi generosi, diritti messi in discussione e accuse di incostituzionalità.
Un ritorno al passato, con lo sguardo rivolto al presente
Dopo diciotto anni di sospensione, la leva militare obbligatoria tornerà ufficialmente in vigore dal 1° gennaio 2026. L’annuncio è stato dato dal ministro della Difesa Ivan Anušić, che ha motivato la scelta con i “mutamenti profondi nello scenario geopolitico internazionale”, le crescenti instabilità climatiche e la necessità, sempre più pressante, di “preparare i cittadini alla gestione delle crisi”. Un linguaggio che richiama toni emergenziali, ma che nella pratica riporta i giovani croati davanti a un bivio: armi o servizio civile.
Il Parlamento dovrà approvare la legge entro la fine del 2025, ma il progetto è già dettagliato e pronto a essere attuato. Due mesi in caserma o fino a quattro in un centro di Protezione Civile. Un sistema binario, presentato come equo e moderno, che però ha già iniziato a mostrare tutte le sue crepe.
In caserma tra sudore e disciplina. Con 1.100 euro al mese
Chi sceglierà (o sarà costretto a scegliere) la via militare, verrà trasferito in una delle tre principali caserme del Paese: Knin, Slunj o Požega. Qui, per 60 giorni, i ragazzi affronteranno un addestramento intensivo su tutto ciò che concerne la vita da soldato: armi, movimento tattico, autodifesa, emergenze, esercitazioni di combattimento, comunicazioni. Tutto scandito da un regime quasi monastico: sveglia alle sei del mattino, attività no-stop fino alle dieci di sera, un solo giorno di riposo a settimana.
Il governo, consapevole della difficoltà di rendere appetibile una simile esperienza ai nativi digitali del 2000, ha messo sul piatto una retribuzione netta di 1.100 euro al mese, con vitto, alloggio, ferie e trasporti coperti dallo Stato. Ma non è solo una questione economica. Chi completerà la leva vedrà il periodo riconosciuto come anzianità contributiva e godrà di una corsia preferenziale nei concorsi pubblici.
E proprio quest’ultimo aspetto sta facendo discutere. Perché se da un lato si premia il “servizio alla patria”, dall’altro si apre un abisso di diseguaglianza. Chi sceglie il servizio civile resta escluso da ogni vantaggio. E la parità di trattamento finisce nel mirino.
Il servizio civile: meno armi, meno soldi, meno diritti
Per la prima volta, la Croazia introduce formalmente il diritto all’obiezione di coscienza. Ma la norma appare subito più punitiva che inclusiva. I motivi morali o religiosi dovranno essere “credibili e dimostrabili”, con un’interpretazione lasciata alla discrezionalità dell’amministrazione. Non è previsto alcun ricorso in caso di rifiuto: chi obietta, deve sperare nella benevolenza dello Stato.
I giovani che rifiuteranno l’addestramento militare potranno essere assegnati alla Protezione Civile – in centri come Divulje, Jastrebarsko o Bizovac – dove verranno formati per tre mesi su emergenze ambientali, soccorso, decontaminazione chimica e radiologica. Un’esperienza tutt’altro che leggera, pagata però solo 250 euro al mese.
In alternativa, c’è la possibilità di lavorare per le amministrazioni locali, in compiti legati alla manutenzione urbana, tutela ambientale e ordine pubblico. In questo caso il servizio civile durerà quattro mesi, con zero compensi economici: i giovani riceveranno solo il rimborso per vitto e trasporto. Tornano a casa ogni sera, ma in tasca avranno poco o nulla. Nessun contributo pensionistico, nessuna precedenza nei concorsi, nessun riconoscimento pubblico.
Il contrasto con la leva militare è palese. Un sistema a doppia velocità che, sotto la maschera dell’alternativa, nasconde una strategia di pressione: chi può permettersi di rinunciare a 1.100 euro al mese e accettare quattro mesi di lavoro gratuito?
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Una legge per pochi o per tutti? Esclusioni, rinvii e contraddizioni
La riforma prevede una serie di esenzioni automatiche: detenuti, persone sotto trattamento psichiatrico, sacerdoti, imputati per reati gravi, studenti delle accademie militari. Ma chi non rientra in queste categorie potrà chiedere il rinvio fino ai 29 anni solo in caso di studio universitario, lavoro autonomo o attività professionale all’estero.
Un’architettura normativa che tenta di bilanciare doveri e diritti, ma che rischia di favorire ancora una volta i cittadini più informati, più istruiti, più protetti socialmente. Mentre i giovani delle classi popolari, spesso privi di reti di tutela, rischiano di essere obbligati a scegliere la divisa non per vocazione, ma per necessità.
Costituzione violata? Il fronte del no si allarga
La legge, ancora in fase di approvazione, ha già scatenato una forte opposizione politica e sociale. Il movimento progressista Možemo, insieme a diverse ONG e al Difensore civico per la parità di genere, ha annunciato un imminente ricorso alla Corte Costituzionale.
Le critiche non sono di poco conto: disparità economiche tra coscritti e obiettori, mancato riconoscimento dei diritti civili, esclusione delle donne dall’obbligo di leva, nonostante possano arruolarsi volontariamente. Secondo il Centro per gli Studi sulla Pace, la legge è un attacco diretto alle fasce deboli della popolazione: “Non saranno i figli dei politici a finire in caserma. Saranno i figli della gente comune. Perché a 250 euro al mese, l’obiezione di coscienza diventa un lusso per pochi.”
Anche il meccanismo della precedenza nei concorsi pubblici viene giudicato discriminatorio: chi ha più di 30 anni, chi è donna, chi non può fare la leva per motivi di salute o coscienza, resta tagliato fuori da un vantaggio che diventerà decisivo in molti percorsi lavorativi.
Anušić provoca: “Volete la parità? Allora sia obbligatoria anche per le donne”
Alle critiche, il ministro Anušić risponde rilanciando: “Tutto è conforme alla Costituzione. Le donne possono arruolarsi volontariamente. Ma se vogliamo davvero parlare di parità, allora chiediamoci perché non siano obbligate anche loro.”
Una dichiarazione che suona più come sfida che come proposta concreta. Perché la vera domanda resta un’altra: la nuova leva croata costruisce coesione nazionale o rafforza le disuguaglianze sociali?
Il 2026 è alle porte. Il tempo stringe, e con esso le domande scomode che la politica non potrà più rimandare.
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