SOCIAL, LETTERA AL CAPO DELLA POLIZIA: “LIBERTA’ DI PAROLA PER I POLIZIOTTI”
Dopo il post di marca razzista della poliziotta di Ravenna su Facebook, il sindacato delle divise Coisp, non nuovo a polemiche e provocazioni, ha scritto una lunga lettera al capo della polizia Gabrielli, che pubblichiamo integralmente, nella quale in buona sostanza chiede totale libertà di parola per i poliziotti.
Egregio Prefetto Gabrielli,
la libertà di espressione degli Appartenenti alla Polizia di Stato sta subendo, negli ultimi tempi, ogni sorta di menomazione.
In base ad anacronistiche forme di “censura” ed in forza di un regolamento di disciplina obsoleto e dai dubbi profili di costituzionalità, applicato “a prescindere” ogni qualvolta un poliziotto o una poliziotta esprimono un’opinione sui social network (proprio come fanno migliaia di esponenti del mondo civile, politico e sociale, ininterrottamente) si scatenano delle campagne persecutorie che vedono alleati gli esponenti di un’area politico-ideologia (a tutti noi nota e che ha radici tristemente radicate in periodi storici apparentemente lontani, al cui superamento costoro non si sono mai del tutto rassegnati) e nientemeno che l’Amministrazione della P.S..
Lo sventurato che si trova ad esprime un’opinione non polically correct viene flagellato brutalmente da certa artificiosa opinione pubblica e dall’Amministrazione stessa, solerte nel censurare e sanzionare, nel convincimento deprimente di poter prendere così le distanze da quella che a tutti addita come una mela marcia, come un “cretino”.
Del resto, quasi due secoli fa il filosofo e scrittore statunitense Ralph Waldo Emerson al riguardo efficacemente scriveva (siamo nel 1800 …!): “Il mondo per il non conformismo ti flagella con la sua propria ira, perché esso è per il volgo”
Invece, ricordiamo a noi stessi che l’art. 21 della Costituzione recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. E questo pensiero va difeso anche quando non è il pensiero dominante, quello dei benpensanti che, spesso, sono caratterizzati da una massiccia dose di ipocrisia.
“Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, affermava Voltaire, secondo la saggista britannica Evelyn Beatrice Hall.
Ma per noi tale diritto viene circoscritto notevolmente, per non dire mutilato, dal Titolo III del D.P.R. 28 ottobre 1985 n. 782 sui “Doveri generali e particolari” e dall’applicazione automatica del D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737. Siamo uomini e donne che rappresentano lo Stato, quindi ogni mancanza in servizio viene punita severamente.
Ma dov’è il confine tra critica lesiva del decoro e la semplice espressione di pensiero del cittadino-poliziotto? Oggi questo limite non esiste. Ad ogni post ritenuto sconveniente, spesso semplicemente perché rimbalza in qualche blog o articolo on line, il collega viene immediatamente sanzionato, a volte anche solo per un like in un post di Facebook scritto o condiviso da altri.
La lenta, ma progressiva, erosione del diritto di esprimersi, sta diventando una frana inarrestabile che va ad influire direttamente sull’uomo e sulla donna che indossano una divisa.
Un articolo di stampa di questi giorni parla dell’apertura di un procedimento disciplinare “come di prassi” contro una poliziotta, ritenuta colpevole di aver espresso la propria opinione sulla presenza di posteggiatori abusivi nel centro della città dove vive, mentre, libera dal servizio aveva avuto uno scontro verbale con un personaggio che gli chiedeva soldi per lasciare la propria auto in un parcheggio pubblico.
Poche settimane fa un procedimento disciplinare è stato avviato, dopo una richiesta di una federazione sportiva, che si era ritenuta offesa delle affermazioni fatte da una ex atleta delle Fiamme Oro. Una vendetta semplice: scrivere al suo superiore e farla pagare alla collega.
La potestà disciplinare è come una tagliola che viene applicata senza una regola, se non il “libero convincimento” che una qualsiasi critica, possa venire intesa come una condotta non conforme alla dignità delle funzioni, anche per chi se ne sta in ferie al mare sotto l’ombrellone e magari scrive un post non gradito contro qualcosa che nulla ha a che fare con la propria professione.
Il moltiplicarsi delle occasioni di espressione del proprio pensiero, come tale ovviamente anche il diritto a ravvedersi ed a cambiare idea, invece di rendere gli uomini e le donne delle Forze dell’Ordine più liberi, li sta rendendo muti, prigionieri di quel ruolo che la Costituzione intendeva di primordine: servire lo Stato. Il presupposto era però che lo Stato difendesse i propri Rappresentanti quando lo rappresentano, non che si accanisse contro di essi quando esprimono le proprie opinioni come qualsiasi altro cittadino ha il diritto di fare.
Oggi invece i Servitori dello Stato vivono una situazione kafkiana: per fatti accaduti in servizio, si trovano senza tutele giudiziarie, senza tutele legali, né difesi da parte della propria Amministrazione. Ricordiamo tutti con amarezza il famoso “cretino” affibbiato, senza nemmeno sapere perché, ad un collega dall’ex Capo della Polizia.
Nel resto del proprio tempo i colleghi sono chiamati a dover rispondere personalmente e lavorativamente di ogni presunta lesione di quel decoro della Polizia di Stato, che non viene nemmeno difeso seriamente dalle leggi.
I tempi cambiano, per esempio l’oltraggio a pubblico ufficiale, seppure esistente, come capo d’imputazione fa ridere: i reati che vengono compiuti ai danni degli Appartenenti alle Forze dell’Ordine, limitandoci a quelli fisici, anche volendoli circoscrivere temporalmente alle sole manifestazioni di piazza, sono considerati una medaglia in una consistente parte del mondo malato che ci circonda.
Però siamo noi del COISP a costituirci parte civile nei processi contro chi provoca le lesioni ai colleghi, non l’Amministrazione della Pubblica Sicurezza, che pure potrebbe e dovrebbe farlo sia sotto il profilo etico e morale, sia materiale.
Mentre è sempre più evidente la necessità di una Polizia al passo con i tempi, i poliziotti sembrano essere destinati a tornare indietro di quarant’anni, quando non esistevano i diritti, non esistevano i Sindacati, la trasparenza e l’equità erano sacrificati sull’altare delle necessità, che spesso giustificavano abusi d’autorità.
Un semplice post su Facebook scritto oggi può venire usato, contro di me, domani o fra un anno.
Il messaggio di costrizione della libertà di espressione si rinforza ad ogni presunta violazione del regolamento e conseguente contestazione addebiti: intanto io ti punisco, poi vedremo….attento a quello che scrivi… eccetera.
Vogliamo tutti una Polizia migliore, non possiamo volere Poliziotti muti.
La democrazia che abbiamo giurato di servire e che difendiamo per tutti i cittadini, ce la stiamo vedendo sfilare sotto agli occhi dentro casa nostra, mentre qualche solone plaude fingendo che tutto sia una prova di efficienza.
Noi crediamo che la solidarietà sia il primo e più importante collante, per chi si deve fare forza e continuare a servire lo Stato, i cittadini e la democrazia. Oggi questa sana solidarietà tra colleghi viene compromessa dal sospetto, dalla diffidenza che trasforma ogni nostro pensiero privato manifestato su un proprio spazio virtuale, in una potenziale minaccia per la propria attività lavorativa.
Ovviamente è tanto facile colpire quanto è altrettanto semplice non farlo. Dopotutto chi può imputare ad un Dirigente di aver visto, ma taciuto, un post di un amico e di aver invece sanzionato quello di una persona non gradita? Perché la delazione è assolutamente fruttuosa nel primo caso, basta stampare una pagina ed il gioco è fatto.
Quando avremo tutti il diritto di manifestare liberamente il nostro pensiero, quantomeno senza trovarci la spada del procedimento disciplinare perennemente presente sulla nostra testa, avremo tutti una Polizia migliore.
Oggi siamo prigionieri della divisa quando siamo in servizio perché dobbiamo sopportare ogni sorta di insulto da parte di chiunque, guai a reagire, anche solo verbalmente, perché si scatenano i rabbiosi tutori dei “chiunque altro tranne che delle divise”.
Poi siamo prigionieri dell’Amministrazione quando siamo per i fatti nostri, perché allora ci si ricorda dei doveri, del decoro, delle funzioni.
Proviamo a fare l’inverso e faremo passi da gigante per sanare il crescente disprezzo delle regole del vivere civile, delle leggi e del sistema democratico che sta minando la serenità delle persone oneste, coloro i quali soccombono dinanzi alle prepotenze, all’arroganza, all’illegalità apparentemente piccola che subiscono nel proprio quotidiano, ma grande che subiamo tutti come Nazione.
Lo slogan istituzionale #essercisempre, deve significare esserci anche per gli uomini e le donne della Polizia di Stato, da cittadini e Rappresentanti dello Stato, difendendone il diritto di parola e di pensiero.
Chiudiamo con una piccola riflessione che sottoponiamo a Lei, signor Capo della Polizia.
Si è chiesto (in caso contrario crediamo che dovrebbe farlo, dato che ha questa grande responsabilità istituzionale) perché si moltiplicano queste “esternazioni” dei colleghi sui social network? Noi crediamo che la risposta sia il semplice senso d’impotenza che sempre più li affligge: come cittadini, testimoni delle quotidiane barbarie a cui siamo sottoposti come vittime o spettatori partecipi, e come Rappresentanti dello Stato, testimoni privilegiati dell’inadeguatezza del nostro sistema (legislativo e giudiziario) a contrastare fenomeni che rendono peggiore la nostra vita di tutti i giorni.
Non crediamo che sia un “esercizio molto serio” tentare di risolvere questi problemi con la mordacchia.
Franco Maccari – Segretario Generale Coisp