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Smartphone sequestrato, fornire la password è un obbligo?

(di Avv. Umberto Lanzo) – Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta il delicato tema del sequestro di dispositivi elettronici nell’ambito delle indagini preliminari, definendo importanti principi in merito ai limiti del potere investigativo e ai diritti dell’indagato.

Il caso: sequestro di dispositivi elettronici nell’inchiesta sulle frodi fiscali

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte riguardava il sequestro di computer, tablet e telefoni cellulari disposto dalla Procura di Ancona nei confronti di un cittadino cinese, nell’ambito di un’indagine su presunte frodi fiscali realizzate attraverso l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

La vicenda processuale prende le mosse da un decreto di perquisizione e sequestro emesso dal pubblico ministero, con cui si disponeva l’acquisizione di documentazione contabile e bancaria, nonché di dispositivi elettronici, ritenuti utili alle indagini in quanto potenzialmente contenenti riferimenti alle società “cartiere” già individuate e contatti con i loro amministratori.

Il provvedimento veniva eseguito dalla polizia giudiziaria nei confronti del cittadino cinese, all’epoca non ancora formalmente indagato, che si trovava in una camera d’albergo insieme alla compagna, quest’ultima già attinta da precedenti misure cautelari nell’ambito della medesima inchiesta.

I motivi del ricorso: finalità esplorativa e mancanza di pertinenzialità

La difesa proponeva ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, la finalità meramente esplorativa del sequestro, l’assenza di motivazione in merito al nesso di pertinenzialità tra i beni sequestrati e i reati ipotizzati, nonché la violazione dei principi di proporzionalità e adeguatezza nella acquisizione indiscriminata di dati informatici.

La Cassazione respinge: il sequestro non era meramente esplorativo

La Corte di Cassazione, con una articolata motivazione, ha respinto il ricorso, fornendo importanti chiarimenti su alcuni snodi fondamentali della disciplina del sequestro probatorio di dispositivi elettronici.

In primo luogo, i giudici di legittimità hanno escluso la natura meramente esplorativa del provvedimento, evidenziando come esso si innestasse nel solco di ipotesi di reato già delineate dalle indagini in corso, con particolare riferimento all’emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. La Corte ha sottolineato che il decreto di sequestro, pur non contenendo una formale contestazione delle fattispecie concrete di reato, faceva espresso riferimento a precedenti informative di polizia giudiziaria e ad altri provvedimenti cautelari già emessi, consentendo così di delineare sufficientemente i contorni dell’imputazione provvisoria.

Sotto questo profilo, la sentenza ribadisce un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il sequestro probatorio ha natura esplorativa – e come tale non è consentito – solo quando è finalizzato all’acquisizione di una notizia di reato non ancora individuata nella sua qualificazione giuridica e specificità fattuale. Nel caso di specie, invece, il provvedimento si inseriva nel contesto di indagini già avviate su specifiche ipotesi di reato, configurandosi quindi come legittimo strumento di ricerca della prova.

Il nesso di pertinenzialità: quando è sufficientemente motivato

Un altro aspetto di particolare interesse affrontato dalla Corte riguarda il nesso di pertinenzialità tra i beni oggetto di sequestro e i reati ipotizzati. Sul punto, i giudici hanno ritenuto che tale collegamento fosse adeguatamente esplicitato nel decreto del pubblico ministero, laddove si faceva riferimento alla necessità di acquisire documentazione amministrativa e contabile relativa alle società “cartiere”, nonché dispositivi informatici potenzialmente contenenti riferimenti a tali società e contatti con i loro amministratori.

La Cassazione ha quindi ritenuto che le finalità probatorie del sequestro fossero sufficientemente enunciate e che il nesso di pertinenzialità con le condotte illecite oggetto di indagine fosse di “immediata percezione”, anche alla luce della rilevante mole di documenti e dispositivi elettronici effettivamente rinvenuti in possesso del ricorrente e della compagna.

Proporzionalità e adeguatezza nel sequestro di materiale informatico

Particolarmente significative sono poi le considerazioni svolte dalla Corte in merito ai principi di proporzionalità e adeguatezza nel sequestro di materiale informatico. I giudici hanno ribadito che tali criteri, originariamente previsti dall’art. 275 c.p.p. per le misure cautelari personali, devono trovare applicazione anche con riferimento alle misure cautelari reali, al fine di evitare un’eccessiva compressione del diritto di proprietà e di libertà di iniziativa economica.

Ciò implica che, in linea di principio, il sequestro di dispositivi elettronici non possa tradursi in una indiscriminata acquisizione di dati informatici, senza alcuna previa selezione o indicazione di criteri selettivi. Tuttavia, la Corte ha precisato che, in presenza di determinate condizioni, può essere legittimo anche un sequestro “esteso” di intere categorie di informazioni contenute nei dispositivi.

La sentenza nel solco della giurisprudenza della Cassazione sui limiti al sequestro di device elettronici

La pronuncia in commento si inserisce in un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità volto a delimitare l’ambito di applicazione del sequestro probatorio quando abbia ad oggetto device elettronici, al fine di prevenire illegittime compressioni di diritti individuali.

Già in precedenti pronunce, la Suprema Corte aveva infatti chiarito come, nel caso di perquisizione e sequestro di dispositivi informatici, il provvedimento debba esplicitare le ragioni di necessità, adeguatezza e proporzionalità dell’ablazione, indicando con precisione il materiale da acquisire in base a criteri selettivi.

Inoltre, la Corte aveva precisato che anche la durata del sequestro deve essere contenuta al tempo strettamente necessario per l’estrapolazione dei dati pertinenti, dovendosi comunque tener conto, nella valutazione di ragionevolezza del termine, dell’eventuale ostacolo frapposto dall’indagato che rifiuti di fornire le chiavi di accesso ai dispositivi.

Con la sentenza in commento, la Cassazione ribadisce e arricchisce tali princìpi, chiarendo in particolare che, solo a determinate condizioni, può ritenersi legittimo il sequestro in blocco di intere categorie di dati informatici.

Sequestro “esteso” di dati: quando è legittimo secondo la Corte

In particolare, secondo la Cassazione, è necessario che il pubblico ministero motivi adeguatamente le ragioni per cui si rende necessario un sequestro onnicomprensivo, in relazione al tipo di reato per cui si procede, alla condotta e al ruolo attribuiti al titolare dei beni, nonché all’eventuale difficoltà di individuare ex ante l’oggetto specifico del sequestro. In tali casi, dovranno essere comunque indicati i criteri da seguire nella selezione del materiale informatico e dovrà essere prevista una limitazione temporale del vincolo reale.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che tali presupposti fossero stati rispettati, avendo il pubblico ministero indicato espressamente i criteri di selezione da seguire nell’estrapolazione dei dati dai supporti informatici sequestrati, limitando l’acquisizione ai soli dati riferibili alle società individuate come “cartiere” e agli eventuali rapporti con i loro amministratori. Inoltre, era stata prevista una limitazione temporale del sequestro al tempo strettamente necessario per l’esecuzione della copia forense dei dispositivi.

La sentenza in esame offre dunque preziose indicazioni operative per gli inquirenti, tracciando un delicato equilibrio tra le esigenze investigative e la tutela dei diritti fondamentali dell’indagato. Emerge con chiarezza la necessità di una motivazione articolata e puntuale dei provvedimenti di sequestro di dispositivi elettronici, che dia conto della loro funzionalità rispetto alle ipotesi di reato già delineate e dei criteri che dovranno presiedere alla successiva selezione del materiale informatico.

Smartphone sequestrato, meglio fornire la password o no? Ecco cosa rischia l’indagato

Il rifiuto di fornire la parola chiave per accedere ai dati di uno smartphone sottoposto a sequestro si inserisce nel delicato bilanciamento tra potere investigativo e diritti fondamentali dell’indagato.

Quest’ultimo, in base al principio del nemo tenetur se detegere, non può essere obbligato a collaborare fornendo prove contro sé stesso. Tuttavia, frapporre una strenua resistenza all’accesso al device, ad esempio con violenza o minacce, esporrebbe a possibili conseguenze penali per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale.

Inoltre, qualora a negare la password fosse un terzo estraneo al procedimento, potrebbe ipotizzarsi il reato di favoreggiamento, volto a sottrarre l’indagato alle investigazioni.

Occorre infine considerare che, in ogni caso, le forze dell’ordine potrebbero forzare l’accesso al cellulare mediante sofisticate tecniche di decriptazione digitale. 

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