MINISTRO PINOTTI: PIÙ SEMPLICE ESSERE ACCETTATA TRA I MILITARI CHE NEL MONDO POLITICO
Per me è stato più semplice farmi accettare come donna dal mondo militare, di quanto non lo sia stato in passato nel mondo politico». Roberta Pinotti è la prima donna a guidare il ministero della Difesa in Italia, in questo facendo tesoro dell’insegnamento di suo padre, operaio dell’Enel, che amava dirle: «Ciò che fa un uomo, può fare una donna».
È una rivelazione. Più facile tra i militari che tra i politici?
«Certo qua sono il ministro, ma non ho mai fatto fatica. Non nego che all’inizio ci fosse un certo stupore, anche se in molti mi conoscevano da presidente di commissione e poi da sottosegretario alla Difesa. Poi hanno contato le competenze. Mentre sul fronte politico è stato più complicato, soprattutto a livello regionale. Quando ero a Genova, non era facile per esempio intervenire sui temi economici e del lavoro, pur conoscendoli molto bene, ed esser tenuta nella giusta considerazione».
La presenza di una donna in un settore cosi delicato ha cambiato le relazioni e la qualità dei rapporti coi vertici militari?
«Forse all’inizio hanno avuto un approccio più gentile. Non hanno però impiegato troppo tempo per capire che era meglio passare subito alla sostanze delle cose».
Eppure, signora ministro, l’Italia non è ancora un Paese per donne.
«No. Ma ci sono state battaglie che hanno via via allargato il loro spazio. E c’è stato un momento a mio avviso molto importante: la scelta forte del Governo Renzi di avere una presenza paritetica tra uomini e donne per la prima volta nella storia d’Italia, non solo a livello di ministri, ma anche dei vertici delle aziende partecipate, come Eni, Enel, Poste e altre. Ricordo anche che è aumentato di molto il livello delle donne prefetto o di quelle nel ruolo di ambasciatore. Una stagione con un segno politico fortemente innovativo».
E poi cosa è successo?
«Credo che questo fatto non sia stato valorizzato a sufficienza, non solo dai media, ma anche dal mondo della cultura o dell’accademia, che non ne hanno sottolineato abbastanza la modernità e il valore. E forse questo ha determinato un certo smarrimento della prospettiva, col risultato che in questi ultimi anni l’obiettivo di una parità reale tra uomini e donne non è più stato uno dei temi principali della conversazione nazionale e quindi della politica. È come se di quella svolta, sia rimasta solo una photo opportunity».
Le quote rosa possono servire ancora a innescare il cambiamento?
«Ho sempre pensato che fossero uno strumento necessario in un determinato momento per avere numeri significativi della presenza femminile, visto anche il tetto di cristallo che ha sempre caratterizzato i meccanismi politici. Forse non è ancora il momento di abbassare la guardia, le quote hanno ancora una funzione, ma in prospettiva vanno superate: la presenza femminile deve essere un fatto naturale e ci vuole una crescita complessiva».
Ma il potere in Italia rimane una prerogativa maschile.
«Quando cominciai a fare politica, verso la fine degli anni Ottanta, fra le donne a sinistra si discuteva se fosse giusto ambire al potere oppure no, o se la politica al femminile dovesse pensare in categorie diverse. Ricordo che una rivista, Marea, chiese un’intervista sul tema. Dissi una cosa che direi ancora oggi: il tema è l’uso che fai del potere, come possibilità di cambiare le cose, il che non ha nulla a che vedere con il genere. Quindi è giusto che le donne ambiscano al potere. Ma c’è un altro elemento che riguarda noi donne: occorrerebbe meno paura di gettarsi in esperienze che possano sembrare più difficili. Noto spesso che, anche nelle discussioni di partito, ci sono uomini che prendono la parola anche se non hanno nulla da dire. Per le donne è più difficile, temiamo di più il giudizio degli altri. Allora dico: parlate solo se avete cose da dire, ma siate anche più coraggiose e creative».
Basterebbe solo un po’ più di coraggio da parte delle donne?
«Certo che no. Credo che nella società italiana esistano ancora meccanismi culturali tali per cui poi non ci sono donne direttori di grandi giornali o ce n’è una sola rettore d’università, oppure la percentuale di donne primario è molto più bassa di quella delle donne medico o i vertici della magistratura rimangono appannaggio degli uomini quando ormai da molti anni sono soprattutto le donne a vincere i concorsi. Fino a quando si penserà che il tema della cura della famiglia sia delegato alle donne, sarà difficile per le donne liberarsi da un senso di colpa che si portano dietro. Occorre un cambio di paradigma culturale. Si può scegliere la famiglia, ma in modo consapevole e libero. Nel 2001, ero segretario provinciale dei DS a Genova e venne avanzata la proposta di essere candidata in Parlamento. Proprio in quelle settimane scoprii di essere incinta. Ci fu una riunione femminile e una compagna di partito intervenne per dire che dovevo ritirarmi perché da donna dovevo avere il senso del limite. È nei verbali».
Com’è finita?
«Sono qua».