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La missione italiana in Afghanistan: 53 morti e 700 feriti in 20 anni. Spesi oltre 8,7 miliardi per “lasciare” il Paese nelle mani dei talebani

La missione italiana in Afghanistan per liberare il Paese dalla dittatura talebana è costata la vita a  53 nostri militari e oltre 700 feriti. Oltre al sangue i soldi: 8,7 miliardi spesi in due decenni per finanziare prima  “Enduring Freedom”  e poi “Resolute Support”.

 

Venti anni di lotta al terrorismo e a difesa della sicurezza collettiva pagati a caro prezzo. E dal 8 giugno, giorno dell’ammaina bandiera nella base di Camp Arena a Herat, in Afghanistan tutto è tornato velocemente come prima della missione internazione con gli studenti coranici ormai a un passo da Kabul. E ora davanti al disfacimento di quanto fatto in 20 anni è normale che qualcuno si chieda se ne sia valsa la pena.

 

Soprattutto quando il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato che “ci stiamo preparando ad ogni evenienza, anche quella dell’evacuazione. Dobbiamo pensare alla sicurezza del personale della nostra ambasciata e dei nostri connazionali. Se sarà necessario, con l’importante aiuto della Difesa porteremo tutti in sicurezza in Italia, in tempi rapidi”.  Ma non ci sono solo gli italiani da portare in salvo e la nostra ambasciata da difendere. Ci sono soprattutto quegli afgani e le loro famiglie che in questi anni hanno lavorato per la nostra missione. Molti sono già stati portati in Italia. Peer chi è ancora in Afghanistan  le  procedure di rilascio del visto saranno semplificate. Secondo fonti della Farnesina  tutti gli afghani (interpreti, guide, cuochi, impiegati)  presenti nelle liste che sono state stilate dal ministero Difesa e dal ministero degli Esteri, e che hanno superato lo screening di sicurezza del Viminale, non dovranno più essere effettuare in Ambasciata a Kabul, ma direttamente in Italia. Questo permetterà di velocizzare le procedure burocratiche per il rientro in  Italia e di non “dimenticare” nessuno.  

Il papà di un alpino ucciso

 

La missione italiana è finita da pochi mesi  e Kabul torna allo stesso punto di quando era iniziata: in mano ai talebani. E c’è in Italia chi si chiede se ne sia valsa la pena.  E’ il caso di Piero Chierotti, papà di Tiziano, ucciso in un agguato nel 2012. “Oggi continuo a ripetermi se ne è valsa davvero la pena, mio figlio avrebbe risposto sì, perché ci credeva”‘. “Mio figlio Tiziano andò in Afghanistan credendo fermamente in una missione che riteneva importante. E’ partito con la convinzione di aiutare un popolo, di contribuire alla ricostruzione di Paese. Io oggi, invece, continuo a ripetermi con lo sguardo rivolto a quanto sta accadendo nel Paese, il ritiro delle truppe e l’avanzata dei talebani, se ne è valsa davvero la pena. Rispondere è difficile, un enigma”.  Tiziano Chierotti,  caporal maggiore degli alpini, di Sanremo (Imperia), è morto il 25 ottobre 2012 dopo essere rimasto ferito in un agguato nel villaggio di Siav (provincia di Farah). Era effettivo dal 2008 al 2° reggimento alpini di Cuneo, inquadrato nella brigata alpina Taurinense.   “Tutto quello che vedo oggi fa molta tristezza – aggiunge poi Piero Chierotti -, gli sforzi dei nostri ragazzi sono stati veramente vani. Come neve al sole, di giorno in giorno, assistiamo alla scioglimento di tutto quello che è stato realizzato di positivo per il popolo afghano”.

Enduring Freedom

 Il contributo italiano è stato suddiviso sin dall’inizio di Isaf (International security assistance force) tra  Kabul e la regione occidentale, nelle province di Herat e Farah – con le diverse “fob” (forward operating base, le basi operative avanzate) – ma proprio Herat è diventato subito il punto di riferimento operativo delle decine di migliaia di nostri militari avvicendatisi nella spedizione. Ed è rimasto tale negli anni, anche quando – era il 2014 – “Enduring Freedom” si trasformo’ in “Resolute Support”: da allora le milizie Nato non avrebbero più avuto ruoli combat e si sarebbero ‘limitate’ ad addestrare le forze di sicurezza locali, per metterle in grado di difendersi da sole – un giorno – dalla prevedibile controffensiva nemica. Negli anni le presenze militari degli eserciti stranieri si sono assottigliate, i nostri soldati come gli altri – da ultimo ce n’erano circa 900 -, ma come e più degli altri hanno saputo mantenere lo splendido rapporto conquistato giorno dopo giorno con la popolazione locale, cementato dalla realizzazione di scuole, ambulatori medici, ponti, pozzi e chilometri di rete idrica. Qualcosa come 2.200 progetti di cooperazione civile e militare. Camp Arena, le sue strade squadrate, le palazzine basse e rettangolari, “piazza Italia”, hanno rappresentato a lungo il ‘cuore’ di tutto questo: la sede del Comando del contingente italiano, il quartier generale della Task Force Arena, la pista dell’aeroporto. Di tutto quello, da giugno non restava che qualche vecchia struttura protetta dal cemento armato sferzata dal vento e dalla sabbia. 

Emma Bonino

“Sono settimane che mi spendo dicendo che la fine della missione in Afghanistan avrebbe determinato un ritorno dei talebani al potere. Nell’ultimo periodo, soprattutto intervenendo in Senato, ho segnalato che il ritiro delle truppe avrebbe avuto questo esito: un disastro politico ed umanitario. Ho chiesto che i cooperanti locali che hanno garantito alle missioni internazionali, compresa quella  italiana, di poter svolgere il loro lavoro in loco (autisti, cuochi, interpreti e via dicendo) potessero essere protetti”. A dirlo Emma Bonino.  “Non mi ha mai convinto la tesi dell’accordo politico coi talebani, perché, che mi risulti, non ci sono talebani moderati e la notizia che la  missione diplomatica italiana a  Kabul venga mantenuta èuna contraddizione, considerato che senza la protezione militare i nostri diplomatici potranno al massimo stare chiusi nelle sedi diplomatiche stesse – ha continuato l’ex ministro degli Esteri -. Gia’ nel 1997-’98, quando mi feci promotrice della campagna ‘Un fiore per le donne di Kabul’ le attiviste, che mi fecero fiducia togliendo il burka, spingevano perché’ venissero loro riconosciuti una serie di diritti, come poter essere istruite, che erano loro preclusi. Tutti gli avanzamenti raggiunti, coi talebani alle porte di Kabul – ha concluso Bonino – lasciano solo intravedere un ritorno al passato. Bisogna attivarsi per proteggere gli afgani”

 

 

 

 

 

 

 

 

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