(di Gianluca De Feo) – Il nonnismo in caserma? Se ne parla da sempre, ma nessuno si è mai preoccupato di qualificarlo come reato. E nel frattempo è diventato più complesso e insidioso. “Poiché oggi è presente nelle forze armate anche la componente femminile, gli atti di prevaricazione e di violenza che costituiscono il nonnismo spesso si connettono e si associano con una finalità di carattere sessuale”. Il procuratore generale Marco De Paolis non risparmia nessuna delle ombre che riguardano la giustizia militare.

Regolamenti dimenticati quando è finita la leva obbligatoria, mentre gli uomini e le donne in divisa si sono trovati ad affrontare realtà sempre più difficili. Bisogna applicare le norme pensate per le reclute indisciplinate ai professionisti che vivono sotto attacco in Afghanistan o alla sfera telematica delle cyberwar. Per questo il procuratore De Paolis scrive nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario che “appare indispensabile disciplinare specificamente le situazioni di mobbing, di stalking e di abusi sessuali all’interno delle forze armate, attraverso una disciplina specifica che tenga conto delle peculiarità di status dei soggetti attivi e passivi e di contesto entro cui i fatti si verificano. Per non parlare poi dei reati informatici, la cui mancata previsione in ambito militare crea non pochi problemi interpretativi”.

Il vuoto legislativo nelle forze armate riguarda soprattutto la condizione femminile. “Si ricorderà in proposito – sottolinea il magistrato -, qualche anno fa, la vicenda della caserma Clementi di Ascoli Piceno, ove una indagine della Procura Militare di Roma – scaturita dal noto caso “Parolisi” (l’omicidio della moglie di un sottufficiale istruttore, ndr) – mise in luce sconcertanti episodi di “nonnismo” collegati alla sfera sessuale, di cui erano vittime numerose allieve. In quel contesto, emerse con particolare evidenza la lacuna normativa su queste situazioni; lacuna che – appunto – permane”.

In queste trincee senza regole moderne, il fronte più caldo sono le missioni all’estero. Operazioni di pace che comportano azioni di guerra. Nel 2002 quando è partita la prima spedizione in Afghanistan si è frettolosamente messo mano al codice penale militare con alcune modifiche provvisorie.

Poi nel 2010 è stata scritta una riforma organica, rimasta però nei cassetti. “In questi anni – evidenzia il procuratore – sono state parecchie le situazioni di incertezza interpretativa sulla competenza sui reati commessi all’estero. Incertezza che non giova non solo (e anzitutto) ai soggetti indagati coinvolti e alla efficacia dell’accertamento giudiziario; ma che – dato il rilevante spessore degli interessi in gioco a livello internazionale – potrebbe anche riflettersi negativamente sull’immagine stessa del Paese”. C’è una difficoltà per i magistrati militari – che sono giudici civili – anche nella gestione delle indagini: bisogna condurre inchieste in prima linea anche Iraq, Libano, Somalia, Niger senza sapere neppure a quale corpo affidarle. Perché non ci sono neanche regole chiare su chi debba investigare oltre frontiera.

In tutto, e soprattutto nel caso delle missioni, c’è poi l’ambiguità su chi debba operare: i normali magistrati o quelli militari? In decine e decine di situazioni c’è una duplicazione di procedimenti e processi, con esiti devastanti e una confusione di fondo. Secondo il procuratore il 70 per cento dei reati “militari” finiscono davanti ai tribunali ordinari. “Tutti ricorderanno, ad esempio, il caso dei fucilieri di Marina in India, in ordine a cui il problema della giurisdizione (ordinaria o militare) si pose concretamente; così come si è posto (e si pone attualmente) anche in molti altri rilevanti e delicati casi, conosciuti o non dalla stampa. Sarebbe l’ora di trovare una positiva e definitiva soluzione, sia per i soggetti interessati e sia per i comandanti militari (ufficiali di polizia giudiziaria militare) che operano con difficoltà su queste situazioni all’estero”.

C’è un altro aspetto, che sta particolarmente a cuore a De Paolis. Le indagini sui crimini della Seconda Guerra Mondiale. E’ stato lui come pubblico ministero a riaprire “l’armadio della vergogna” dove erano stati sepolti per mezzo secolo i fascicoli sugli eccidi nazisti. Con risultati superiori a ogni aspettativa. Il procuratore ha identificato e rintracciato i responsabili ancora in vita dei massacri compiuti dagli occupanti tedeschi: “Dal 1999 al 2013 è stato possibile celebrare i processi per le più sanguinose stragi naziste di civili e di militari italiani prigionieri di guerra (per tutti: le stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto Monte Sole; gli eccidi di Cefalonia e tante altre).

Questi processi hanno prodotto 60 condanne all’ergastolo in primo grado, nessuna delle quali – per vari motivi – è stata eseguita dalla Germania e dall’Austria”. E’ incredibile: un’impunità che ha varcato il millennio, senza nessuna indignazione. Senza nemmeno dare seguito ai mandati di cattura: “Dal gennaio del 2008 ben 31 mandati di arresto europei emessi dai tribunali militari italiani non sono stati eseguiti”. Una copertura totale agli aguzzini che rasero al suolo paesi e uccisero decine di persone inermi.

Con una beffa feroce, che nega persino i risarcimenti ai familiari delle vittime “per i quali i tribunali militari italiani, fin dal lontano 2006 sancirono la condanna dello Stato estero – nella specie, la Repubblica Federale di Germania – a risarcire in solido con gli imputati i danni. Dopo il contenzioso internazionale terminato con la pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja del 3 febbraio 2012 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 238/2014, nessun concreto passo in avanti è stato fatto”. Insomma c’è un’altra giustizia che ha bisogno di riforme e di certezze. Per garantire il rispetto della legge, a tutela di tutte le vittime: quelle del presente e quelle del passato.