Editoriale

I NODI IRRISOLTI DELL’ASSOCIAZIONISMO SINDACALE MILITARE

(di Cleto Iafrate) – Ulteriori riflessioni in attesa dell’intervento legislativo dopo la sentenza n. 120/2018 della Corte Costituzionale e il parere n. 2756/2018 del Consiglio di Stato.

In un precedente contributo, in occasione dell’analisi del parere reso in merito alla circolare emanata dal Ministero della Difesa a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 120/2018, era emersa una certa contiguità tra la Seconda Sezione del Consiglio di Stato ed il Ministero della Difesa.
In particolare, era stato segnalato che la predetta Sezione di Palazzo Spada “ha espresso al di fuori della sede ‘processuale’ un proprio orientamento su tematiche che potrebbe poi dover riaffrontare in sede contenziosa […] sarebbe stato maggiormente conveniente che un parere su tali questioni fosse stato espresso dalla ‘Sezione Consultiva per gli atti normativi’ dello stesso Consiglio di Stato, che è formata da Giudici diversi rispetto a quelli presenti nella Seconda Sezione ”.
Scopo del presente scritto, invece, sarà quello di illustrare alcune questioni non trattate né dalla Corte Costituzionale, né dal Ministero della Difesa, né dal Consiglio di Stato, ma con cui il Legislatore dovrà confrontarsi.

Le ragioni alla base della mancata registrazione dei sindacati nell’esperienza sindacale italiana.

Sappiamo che l’art. 39 della Costituzione sancisce che “L’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E’ condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
Sappiamo, inoltre, che il primo comma dell’articolo, avendo natura precettiva, è immediatamente applicabile; gli altri, invece, avendo un contenuto programmatico, necessiterebbero di norme legislative di attuazione che a tutt’oggi non sono state emanate.
L’esperienza sindacale del dopoguerra, infatti, è stata caratterizzata dalla mancata registrazione delle Organizzazioni Sindacali.
Quali sono le ragioni?
In primis, perché “ha senza dubbio giocato il timore delle organizzazioni sindacali, appena uscite dall’esperienza corporativa, di essere soggette a controlli penetranti da parte dei pubblici poteri in ordine alla propria organizzazione interna ed alla propria attività anche di carattere conflittuale ”.
Le altre ragioni, sono perlopiù legate “all’efficacia della contrattazione collettiva”, che avrebbe sostanzialmente agevolato i sindacati “maggiormente rappresentativi ”.
In altre parole, gli stessi sindacati hanno visto con diffidenza la eventuale registrazione, temendo che essa avrebbe creato le condizioni per possibili interferenze del potere politico, attraverso l’imposizione di controlli e limiti alla loro libertà; il tutto a svantaggio degli interessi dei lavoratori da salvaguardare.
Una tale diffidenza è certamente un retaggio dell’esperienza politica precedente, caratterizzata da autoritarismo e antidemocraticità, nel corso della quale l’unico sindacato riconosciuto era fatto oggetto di forti controlli da parte degli apparati dello Stato. Esperienza politica che sfociò nella legge n. 563 del 3 aprile 1926 che proibì lo sciopero e stabilì che soltanto i sindacati “legalmente riconosciuti”, che già detenevano praticamente il monopolio della rappresentanza sindacale (dopo la conclusione del Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925), potevano stipulare contratti collettivi.
Il fenomeno sindacale in quel periodo storico venne compresso in un’unica espressione associativa nella quale dovevano convivere sia gli interessi dei lavoratori che quelli dei datori di lavoro. Come se non esistesse un antagonismo di interessi. L’idea di un conflitto fra lavoratori e datori di lavoro venne rimossa e al suo posto venne collocato l’interesse prevalente della produzione.

2.1 Il preventivo assenso del Ministero.
Per tornare all’ordinamento militare, la circolare del Ministero della Difesa prevede che per la costituzione di associazioni a carattere sindacale debba essere dato l’assenso (autorizzazione) del Ministero del Difesa che deve vagliare i loro atti costitutivi e statuti. La circolare, inoltre, esclude “la possibilità di costituire sindacati formati solo da categorie distinte per gradi della scala gerarchica”. Come se gli interessi del generale coincidessero con quelli del fante. Un tale divieto -si legge- ha lo scopo di “evitare forme di conflittualità interne alla compagine militare”. L’interesse prevalente, quindi, è la tutela della coesione interna.
Tuttavia, come sappiamo, alle associazioni militari a carattere sindacale non è consentito partecipare alla contrattazione collettiva, che è stata lasciata alla Rappresentanza Militare (i cc.dd. “sindacati gialli ”); alle associazioni è riconosciuta una non meglio specificata “azione dialettica” da condurre nel rispetto del divieto di esercizio del diritto sciopero imposto ai militari.
Stando così le cose, probabilmente, il “preventivo assenso” del Ministero non era la strada obbligata da percorrere, perché non solo la storia e l’esperienza sindacale italiana sopra tratteggiata ha dimostrato il contrario, ma anche perché nella misura in cui alle associazioni sindacali sono applicate le stesse limitazioni previste per la Rappresentanza Militare, la coesione e l’efficienza della compagine militare, nel caso di possibili “aggressioni” delle stesse da parte dei “sindacalisti in uniforme”, sarebbero comunque ben presidiate dalla Disciplina Militare e dal Codice Penale Militare.
In altre parole, le Amministrazioni Militari ben potrebbero in luogo di un controllo preventivo, porre in essere dei controlli successivi alle attività dei suddetti sodalizi.
Quindi, bisogna prestare attenzione nel considerare che “il controllo delle associazioni sindacali” non si converta in “controllo dei sindacalisti”, anche alla luce di quello che si dirà nei paragrafi successivi.

La repressione della condotta antisindacale e la tutela del delegato.

L’art. 28 comma 1 dello Statuto dei Lavoratori -rubricato Repressione della condotta antisindacale- prevede che “Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.
Non vi è chi non veda che tale disposizione normativa, a prima vista, è difficilmente adattabile alle Forze Armate.
Però, l’Ordinamento Militare conosce alcune disposizioni -applicabili alla Rappresentanza Militare e non solo- come l’art. 1466 COM (L’esercizio di un diritto ai sensi del presente Codice e del Regolamento esclude l’applicabilità di sanzioni disciplinari), l’art. 1479 COM (Sono vietati gli atti diretti comunque a condizionare o limitare l’esercizio del mandato dei componenti degli organi della rappresentanza), l’art. 1480 COM ( I trasferimenti ad altre sedi di militari di carriera o di leva eletti negli organi di rappresentanza, se pregiudicano l’esercizio del mandato, devono essere concordati con l’organo di rappresentanza a cui il militare, del quale si chiede il trasferimento, appartiene.).
Ciò premesso, finora è stato affermato che valgono per le associazioni a carattere sindacale le stesse limitazioni che valgono per la Rappresentanza Militare.
Ma allo stesso tempo, non è stato affermato che valgono per il rappresentante sindacale in uniforme le stesse (ristrette) tutele che valgono per il Delegato della R.M.!

Il rapporto con gli Organi di Informazione.

Al momento, è stata riconosciuta l’”azione dialettica”, che è cosa ben diversa dalla concertazione contrattuale. Ovvero, il più importante strumento dialettico di un’associazione professionale.
Inoltre, la questione che “sterilizza” la suddetta attività dialettica è la mancata normazione inerente il rapporto con gli Organi di Stampa.
In altre parole, cosa rischia dal punto di vista disciplinare un rappresentante sindacale militare che si rivolge ai media per rappresentare questioni inerenti l’attività sindacale? Quali argomenti può trattare? Deve essere preventivamente autorizzato dalla scala gerarchica?
Si consideri che l’art. 751 c. 1 n. 46) del D.P.R. 90/2010 si esprime in tal senso: “Possono essere puniti con la consegna di rigore : […] invio o rilascio alla stampa o a organi di informazione, di comunicazioni o dichiarazioni a nome di un organo di rappresentanza militare. E’ fatta eccezione per i componenti del COCER per quanto riguarda le materie di competenza di tale organo rappresentativo”.

Conclusioni.

Come abbiamo visto, ci sono ancora molte lacune normative in merito all’associazionismo nelle Forze Armate.
Di sicuro ci sono le limitazioni rispetto alle “altre associazioni sindacali” e la “convivenza forzata” con la Rappresentanza Militare, perché non basta affermare che Associazioni e Rappresentanza sono soggetti ontologicamente diversi. Nonostante le loro differenze, devono comunque dialogare con gli stessi interlocutori: l’Amministrazione, ed i militari di base, dei quali attualmente hanno una rappresentanza “concorrente”.
Ricapitolando, i “sindacalisti blu di prima nomina” hanno le stesse limitazioni dei “sindacalisti gialli di lungo corso”, ma non ne hanno esplicitamente le stesse garanzie.
Infine i delegati della rappresentanza militare, di ogni livello, non possono ricoprire contestualmente incarichi direttivi nelle associazioni professionali a carattere sindacale: una simile evenienza -si dice nella circolare del Ministero- potrebbe indurre confusione di ruoli, determinando criticità nell’ordinaria interlocuzione degli organismi di rappresentanza con le autorità gerarchiche cui sono affiancati. La tematica della “confusione di ruoli” è complessa e sarà fatta oggetto di approfondimento in un prossimo contributo.
Ad ogni modo, la previsione di una tale incompatibilità lascia immaginare che la fase transitoria non sarà di breve durata.
Quindi, rischiamo seriamente di rivedere un film già visto quarant’anni fa.
La Legge di Principio sulla disciplina militare n. 382 del 1978 innovò profondamente il mondo militare, introducendo il principio della consapevole partecipazione e aprendo alla Rappresentanza militare (COBAR, COIR e COCER).
Lo stesso Sandro Pertini, che era stato eletto da poco Presidente della Repubblica, definì la legge come «una immissione nelle forze armate di spirito partecipativo che dovrà presto dare i suoi frutti» .
Frutti che i militari ancora oggi stanno aspettando. La legge di Principio, infatti, rimandava a un Regolamento da emanarsi entro i successivi sei mesi, che avrebbe dovuto accogliere i principi introdotti dalla legge e disciplinarne solamente gli aspetti di dettaglio.
Il Regolamento attuativo giunse con ben otto anni di ritardo (DPR 545/86) –giunse, cioè, l’anno dopo la scadenza del mandato del Presidente Pertini- e di fatto anestetizzò i contenuti della legge, attraverso l’introduzione di una serie di limitazioni che ne disinnescarono la portata innovativa.

Considerata la sensibilità esternata dall’attuale Ministro della Difesa, che non si stia di nuovo prendendo tempo in attesa che cambi la direzione del vento e il nuovo clima (politico) favorisca un altro disinnesco?
(Fonte: studiocataldi.it)
Cleto Iafrate

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