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"CI DICEVANO ERA TUTTO A POSTO". VITTIME DELL'URANIO, DIMENTICATI DALLO STATO

Negli ultimi dieci anni sarebbero 3.700 i reduci da missioni all’estero che hanno avuto un tumore. In 532 hanno richiesto un risarcimento al ministero della Difesa. Nessuno di loro ha ancora visto un euro.

Giovanni, orgoglio dell’Arma dei carabinieri, ex scorta di magistrati antimafia, veterano di missioni all’estero in Kosovo e Nassiriya, era un colosso d’uomo di novanta chili. Il suo calvario è iniziato con una serie di emicranie lancinanti, problemi alla vista, tremori alle gambe. “Ha solo bisogno di riposo”, minimizzavano i medici. Invece quei disturbi si sono trasformati in una diagnosi senza scampo: tumore al cervello. Che se lo è portato via in diciotto mesi e quindici giorni.
A Gaetano, vice brigadiere reduce da missioni in Bosnia, hanno dovuto asportare metà intestino. In cinque anni ha subito quattro interventi e oggi è inchiodato a un letto d’ospedale.
Paolo, quando è partito per la prima missione all’estero, aveva appena compiuto vent’anni. Oggi, 35enne, è sopravvissuto a una lunga lotta contro un tumore che gli ha portato via un testicolo.
Si sentono rinnegati da quello stesso Stato che hanno servito fin da ragazzi, dimenticati dalle istituzioni, snobbati dalle autorità alle quali hanno chiesto aiuto. Sarebbero quasi 3.700, secondo i più recenti dati a disposizione, i militari di ritorno da missioni all’estero che negli ultimi dieci anni si sono ammalati di tumore. Trecentoquattordici dal 1999 fino a oggi, invece, quelli già deceduti. L’ultimo caso si è verificato pochi mesi fa a Roma: un maresciallo capo della Croce Rossa ucciso da una neoplasia polmonare a piccole cellule.
Si tratta di uomini in divisa che hanno servito con onore la bandiera italiana – variegati per appartenenza militare – ma con un unico comune denominatore: una patologia provocata da esposizioni all’uranio impoverito o al radon, un gas radioattivo completamente inodore che deriva sempre dallo stesso metallo. Un esercito silenzioso, che ora chiede a gran voce di essere ascoltato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti.
La lista di morti e malati sottoposti a cure estenuanti continua infatti ad allungarsi, con segnalazioni dettagliate in tutta Italia, quasi ogni mese. Anche da parte di uomini giovanissimi, fra i 22 e i 45 anni. Eppure – denunciano avvocati e associazioni – il ministero della Difesa, che nel 2010 ha persino istituito un “gruppo progetto uranio impoverito” proprio per studiare il fenomeno e ha messo a disposizione un fondo di 30 milioni di euro (finanziato con 10 milioni di euro all’anno) per risarcire eventuali vittime, continua a non rispondere alle loro lettere, telefonate e richieste d’aiuto. Tanto da obbligarli a ricorrere ai tribunali civili, che in questi anni hanno registrato una lunga serie di condanne.
Di molti di loro si sta occupando la Procura di Rimini. Dove un pool di magistrati creato ad hoc ha messo insieme in poco più di un anno un totale di 27 casi, fra esposti e denunce. Segnalazioni che – come risulta a l’Espresso – continuano a crescere quasi ogni mese.
L’Italia, infatti, è uno dei pochissimi Paesi europei ancora scettico di fronte a un collegamento fra l’esposizione al materiale con cui sono costruite le teste di guerra delle munizioni usate dalla prima Guerra del Golfo ad oggi e l’insorgenza delle forme tumorali.
CI DICEVANO: E’ TUTTO A POSTO

Eppure i rischi delle esposizioni da uranio impoverito, alle autorità italiane, dovevano essere ben noti da tempo. In particolare dal 1999, da quanto l’U.S. Army divulgò un’informativa rivolta ai vertici militari di tutti i Paesi presenti in missioni nella ex Yugoslavia sulla pericolosità delle neoparticelle di uranio impoverito.

Il documento illustrava in inglese come difendersi dai rischi dovuti al contatto con l’uranio, per esempio lavandosi le mani e coprendo la pelle esposta. Inoltre, per quanto riguarda le missioni in Kosovo, una cartina segnalava le zone bombardate da armi di uranio impoverito.
Una polvere terribile, l’uranio, in grado di infilarsi nelle divise dei militari e di provocare negli anni malattie irreversibili. Spiega l’ammiraglio Falco Accame, oggi presidente dell’associazione Ana-Vafaf, che tutela le famiglie dei militari deceduti in tempo di pace: “Gli americani erano stati chiari: neanche un lembo di pelle doveva rimanere esposto a quel metallo, e i soldati erano tenuti a indossare tute completamente impermeabili. Invece i nostri erano vestiti poco più che in braghe di tela, si sedevano nelle camionette dove sui sedili era rimasta la polvere di uranio, che si infilava nelle mutande e nei pantaloni. E questo spiega l’anomala insorgenza di tumori non solo alle vie respiratorie, ma anche ai testicoli e rettali”.
I ricordi sono ben stampati nelle mente del capitano Enrico Laccetti, alto ufficiale della Croce Rossa, per quasi dieci anni in servizio nei Balcani, che al ritorno dalla missione di pace si è ritrovato un linfoma ai polmoni lungo 24 centimetri provocato – recita il referto della biopsia – “da nanoparticelle di metallo pesante”.
“Noi italiani operavamo a mani nude, con il volto scoperto, senza maschere, in territori altamente inquinati da proiettili di uranio impoverito, ancora conficcati al suolo”, ricorda oggi, “e poi vedevamo i soldati statunitensi tutti bardati, con divise ultratecnologiche che sembravano sbarcati da un film di fantascienza, ma quando abbiamo chiesto ai nostri superiori perché fossero così protetti – e noi invece no – loro ci rispondevano: sono americani, sono esagerati. Non preoccupatevi: è tutto a posto”.
INDAGINI A RIMINI

Tutto a posto però non era. I soldati hanno cominciato a scoprirlo sulla propria pelle una volta rientrati in Italia, nei primi anni Duemila. Gli strascichi continuano ancora oggi, perché gli effetti deleteri dell’uranio possono metterci anche quindici anni a manifestarsi. Come conferma il boom di segnalazioni arrivate nel corso di quest’anno ai centralini della Procura di Rimini, dove il pubblico ministero Davide Ercolani sta coordinando una delicatissima inchiesta, ancora nella fase delle indagini preliminari, che per ora riguarda 27 militari.

Il fascicolo d’indagine con l’accusa di omicidio colposo e omessa esecuzione di un incarico, fino ad oggi contro ignoti, potrebbe arrivare a dare un nome e un cognome ai vertici militari responsabili delle missioni di pace all’estero che avrebbero potuto sapere i rischi ai quali andavano incontro i soldati, inadeguatamente equipaggiati, mandati allo sbaraglio in territori fortemente inquinati dall’uranio impoverito. Chi erano e quanti erano, insomma, i comandanti consapevoli del rischio che stavano correndo i loro militari e che nonostante questo li hanno lasciati servire lo Stato in quelle condizioni?
Spiega a l’Espresso Ercolani: “Tutto è partito con il caso del brigadiere capo Giovanni Mancuso, stroncato da un tumore al cervello nel 2010. A sporgere denuncia sono stati i suoi familiari. Da lì è stato come scoprire la punta di un iceberg, e in poco tempo decine di persone hanno preso d’assalto i centralini della sezione polizia giudiziaria di Rimini per avere informazioni, rendere dichiarazioni e fare esposti. Ora saranno le indagini a stabilire se davvero i vertici della Difesa potevano non sapere i rischi dell’uranio”. “I casi che ci troviamo ad analizzare sono tanti e diversi”, aggiunge ancora il magistrato, “il comune denominatore è l’insorgenza di forme tumorali, tutte piuttosto simili fra loro, e il rientro da missioni di pace all’estero in Somalia, Kosovo, Jugoslavia e Afghanistan”.
Alcuni sono ancora vivi e lottano ogni giorno fra chemioterapie e cure più disparate. Spesso sembrano guariti e poi il tumore si risveglia, a distanza di anni, ancora più subdolo e feroce. Altri, invece, non ci sono più. E la loro voce arriva attraverso i familiari a colpi di cartelle cliniche, diari di guerra, documentazioni.
Soprattutto, infatti, parlano le carte. In particolar modo quelle raccomandate senza risposta, che in questi mesi e anni i militari hanno inoltrato al ministero della Difesa per chiedere informazioni e assistenza. Molte di queste – denunciano – rimaste lettera morta.
Come la lunga serie di missive che l’avvocato Stefano Caroli, difensore di un militare appartenente all’Esercito Italiano in servizio presso il reggimento Aviazione che si è ammalato di una grave forma di tumore al testicolo, sta inviando da un anno e mezzo a questa parte al ministero della Difesa. Spiega il legale: “Abbiamo formulato la richiesta di risarcimento allegando la documentazione che dimostra come il mio assistito si sia ammalato in seguito all’esposizione di munizioni all’uranio impoverito. Quando è partito in missione la prima volta aveva appena 20 anni. Oggi, seppur guarito, ha subito l’asportazione di un testicolo e per curarsi ha dovuto affrontare spese sanitarie molto alte”. Le lettere inviate sono state esattamente cinque, ma nessuna ha ricevuto risposta. L’ultima risale allo scorso 3 febbraio, dove si annuncia battaglia legale. “Ci hanno costretti a sporgere denuncia, e questo è inaccettabile”, spiega ancora Caroli, “così come è inaccettabile la mancanza di rispetto da parte di un ministero nei confronti di un soldato che fin da ragazzo ha fatto della difesa del proprio Paese una ragione di vita”.
“Ho ricevuto encomi durante le missioni, ho onorato la divisa che ancora oggi indosso, ma durante la malattia ho affrontato un incubo nel più totale abbandono”, racconta il militare, che oggi ha compiuto 35 anni, è ancora in servizio e per questo chiede di rimanere anonimo. “Oggi sono guarito, anche se le conseguenze di quella malattia sarò costretto a portarmele dietro per sempre”.
Sembrava guarito, ma poi ha avuto una tremenda ricaduta, anche il vicebrigadiere dell’Arma dei carabinieri Gaetano Luppino, che tra il 2003 e il 2004 ha partecipato a missioni in Bosnia e in Kosovo con la Msu (Multinational Specialized Unit), l’unità di forze di polizia che aveva il compito di lotta al crimine organizzato e al terrorismo. Oggi si trova su un letto dell’ospedale San Martino di Genova, dove ha recentemente subito un delicato intervento al pancreas per rimuovere 15 centimetri di intestino. Si tratta della quarta operazione chirurgica dal 2008 a oggi. Nel settembre 2013, dopo una battaglia legale lunga quattro anni, gli è stata riconosciuta in primo grado la causa di servizio e un risarcimento pari a 150mila euro. Sentenza immediatamente esecutiva. Il ministero, però, ha fatto ricorso alla Corte d’Appello di Savona sezione lavoro, che lo ha rigettato il 3 gennaio 2014. Nonostante questa vittoria, da allora Gaetano Luppino giura di non aver mai visto neanche un euro di risarcimento. “Ho affrontato un anno di chemioterapia, cure domiciliari, trasferimenti in auto fino a Genova quasi ogni giorno. Tutto a mie spese”, racconta. “Questa è una lotta che mi ha umiliato, è la storia di un’Italia che dimentica i suoi figli più fedeli”.
Accuse dolorose, che però il ministero della Difesa respinge con forza. Come spiegano a l’Espresso: “Dedichiamo grande attenzione al problema dei militari che si ammalano in missione, tanto che oltre al fondo per le vittime abbiamo istituto anche degli ‘info point’ ai quali il personale può rivolgersi per chiedere informazioni e per avviare tutte le procedure per vedersi riconosciuta la causa di servizio”. Dalla Difesa, inoltre, fanno sapere che dal 2013, attraverso nuove regole, la possibilità di ottenere le indennità da parte dei militari si sono allargate non solo a chi si è ammalato di patologie collegate all’uranio impoverito, ma anche a chi è affetto da altre malattie invalidanti sorte durante il lavoro.
Per le vittime, nel 2010 è stato anche istituito un fondo da 10 milioni di euro all’anno. Che oggi ammonta a 30 milioni. Da allora agli sportelli del ministero sono arrivate 532 domande da parte di militari. Di queste, fanno sapere dalla Difesa, dopo essere state esaminate da una apposita commissione medica, “circa il 25% sono state accolte”. Oltre il 70%, va da sé, sono invece tornate indietro.
VITTORIE IN SEDE CIVILE

E così, di pari passo con le inchieste giudiziarie, procedono lentamente la giustizia civile e la Corte dei Conti. Fino a oggi si contano 25 sentenze di condanna in tutta Italia nei confronti del Ministero della Difesa. I giudici si spingono là dove i vertici militari rimangono scettici: riconoscono il nesso di causalità fra la malattia sviluppata dai militari e la loro esposizione in missione all’uranio impoverito. Quasi tutte queste cause, in tutta Italia, sono state portate avanti dallo studio legale dell’avvocato romano Angelo Fiore Tartaglia, in collaborazione con l’Osservatorio Militare presieduto dal maresciallo in pensione Domenico Leggiero.

Finora nessun militare ha riscosso un solo euro da parte del ministero della Difesa. Ma se queste condanne dovessero passare in giudicato, lo Stato potrebbe essere obbligato a versare una valanga di risarcimenti.
Come dimostra la sentenza della Corte dei Conti dell’Aquila, che due anni fa ha condannato il ministero della Difesa e quello dell’Economia a versare una pensione militare privilegiata al caporal maggiore Rinaldo Porretti, reduce da missioni in Bosnia e Albania, colpito da un carcinoma neuroendocrino metastatizzato.
“La permanenza in missione di pace – scrive il giudice nella sentenza – si è protratta senza alcun mezzo di protezione dalle esalazioni e residui tossici quali derivanti dalla combustione e ossidazione di metalli pesanti a seguito dell’esplosione di ordigni bellici e delle fabbriche di sostanze chimiche, anch’esse bombardate”. E poi ancora: “Questo giudice non può non riconoscere l’alta probabilità che le neoparticelle a sua volta generate da proiettili composti di uranio depleto, abbiano costituito un elemento determinante per la patologia stessa, che si è manifestata a diversi anni di distanza dal ritorno in patria”.
Un risarcimento danni da 400mila euro è stato riconosciuto in primo grado dal Tribunale civile di Roma alla famiglia del caporal maggiore dell’Esercito Amedeo D’Inverno, 30 anni, deceduto il 10 febbraio 2007 dopo il rientro da missioni in Bosnia per una forma fulminante di leucemia promielocita acuta. Condannando ancora una volta il ministero della Difesa, i giudici oltre a rilevare che dalle biopsie “sono emersi elementi chimici metallici non presenti nel corpo umano” attribuiscono una chiara responsabilità ai vertici della Difesa: “Appare logico pensare – scrivono le toghe – che il ministero della Difesa dell’epoca fosse a conoscenza dell’esistenza dell’uranio impoverito in Bosnia o come minimo del serio rischio di un suo utilizzo in quell’area”.
Poche settimane fa una sentenza definita “storica” della Corte di Cassazione ha sancito come la giurisdizione competente a valutare il danno per gli eredi dei militari morti sia quella dei tribunali ordinari. Una vittoria per le vittime e i loro familiari. Una sconfitta per lo Stato, che sarà chiamato a prendersi le proprie responsabilità e a fare i conti con decine di vite stroncate.
E IL TAR INVERTE L’ONERE DELLA PROVA

A ridare speranze ai militari e soprattutto un po’ di giustizia sta intervenendo ora anche il Tar. Sono in aumento i ricorsi accolti delle vittime di tumori che si erano viste negare gli indennizzi dallo Stato, ma a mettere con le spalle al muro il Ministero della difesa è stato soprattutto il Tribunale amministrativo del Lazio, con la sentenza a favore del caporal maggiore Giuseppe, arruolatosi nel 1999 e congedato nel 2010, dopo essere stato colpito da un linfoma di Hodgkin. I giudici hanno stabilito che deve essere la Difesa a dimostrare che i tumori non sono stati causati dall’uranio impoverito e non le vittime a provare il contrario. Malato e senza lavoro, l’ex paracadutista del Col Moschin di Livorno si era visto negare i benefici previsti dalla legge del 2010. Il Ministero aveva insistito sulla necessità della certezza scientifica, pressoché impossibile, sul nesso di causalità tra l’esposizione all’uranio e l’insorgere del cancro. Una tesi portata avanti anche davanti al Tar, specificando che il caporal maggiore non era mai stato in missione all’estero e si era occupato soltanto della bonifica dei mezzi di ritorno dal Kosovo, particolare che escluderebbe il rischio di contrarre la malattia.

Una posizione bocciata completamente dai giudici, specificando che è “in contrasto con quanto sostenuto dalla comunità scientifica internazionale e recepito dalla istituzioni politiche”. Il Tar ha poi evidenziato soprattutto che “il riconoscimento dell’indennità non richiede quel grado di certezza di dimostrazione del nesso causale”, essendo sufficiente la dimostrazione “in termini probabilistico-statistici”, con “inversione dell’ordine della prova”. Quando deve dunque essere riconosciuto il beneficio? “In tutti quei casi in cui l’Amministrazione non è in grado di escludere un nesso di causalità”. E così cambia tutto.
da espresso.repubblica.it

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