Covid, il tributo di sangue dell’Arma: 8 militari morti e 605 infetti
Claudio Santoro, brigadiere capo di 57 anni in servizio al Comando di Lucera. Claudio Polzoni, appuntato scelto di stanza a Bergamo. Fabio Cucinelli, appuntato scelto addetto allo stabilimento militare Ripristini e recuperi del munizionamento di Noceto (Parma). Fabrizio Gelmini, 58 anni, maresciallo maggiore della stazione di Pisogne (Brescia). Mario D’Orfeo, luogotenente carica speciale di 55 anni, comandante della Stazione di Villanova d’Asti. Mario Soru, appuntato scelto impegnato al reparto Servizi Magistratura di Milano. Raffaele Palestra, carabiniere in servizio presso il Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Salerno. Massimiliano Maggi, 53 anni, maresciallo maggiore della caserma provinciale de La Spezia.
Sono nomi, gradi, età. Sono le storie degli otto militari dell’Arma uccisi in due mesi di coronavirus. Il loro decesso è il prezzo di sangue versato della Benemerita alla pandemia, il più alto tra le forze dell’ordine. Forse nel fiume in piena di notizie non se ne è parlato abbastanza, dunque vale la pena almeno ricordare i loro nomi. Oltre agli otto morti, l’Arma conta anche 605 contagi dall’inizio dell’emergenza, di cui 481 ancora positivi, 47 ricoverati in ospedale e 434 in isolamento domiciliare. Come riporta l’Adnkronos, il trend nelle varie Regioni segue quello del totale dei contagi in tutta Italia. La Lombardia è al primo posto, con 119 militari positivi, poi a seguire ci sono Piemonte e Valle d’Aosta con 50 casi, Emilia Romagna con 46, Veneto con 43 e il Lazio con 37 carabinieri contagiati.
Come ovvio che fosse, anche nell’Arma non sono mancate le polemiche per i pochi tamponi, per le mascherine contate, per i Dpi scaduti arrivati alle volanti schierate per strada. Alla fine era scontato (o forse no?) che anche gli uomini in divisa si contagiassero. Tra loro c’è anche Marco Billeci, maresciallo capo operativo nel Battaglione di Firenze. Quando tutto esplode, il 22 febbraio, viene spedito a Lodi per chiudere le strade delle cittadine trasformate in zona rossa. Poi il 10 marzo si sposta a Bergamo, uno dei focolai più drammatici di questa emergenza. Ed è lì che, mentre i camion dell’Esercito portano via le bare dalla Val Seriana per alleggerire i forni crematori ormai saturi, Marco inizia il suo “calvario” con “una fortissima crisi respiratoria”.
Il film della sua malattia lo ha affidato ai social, poi condiviso da alcuni colleghi, e al quotidiano online Notizie di Prato. “Stavo ridendo con un mio collega – racconta – uno di quei momenti che aiutano a stemperare la tensione. Improvvisamente mi è mancato il respiro, il fiato non bastava più”. Inizia così la degenza e l’isolamento. Il polmone del marescialo viene “danneggiato e funziona solo al 50%”. I medici provano una terapia sperimentale. Poi il 25 marzo la crisi respiratoria: quella tremenda fame d’aria, la sensazione di morire. “In piena notte sono stato assalito da altre quattro crisi respiratorie”, spiega. Il saturimetro scende fino ad 88, un inferno lungo 40 minuti. Poi “dopo le cure mi sono ripreso”.
La stranezza è che perché per quattro volte il tampone di Billeci risulterà negativo al Sars-Cov-2. Il maresciallo sta male, i polmoni non funzionano, eppure il test dice che lui non è da annoverare tra i contagiati. Solo una volta tornato a Firenze la ricerca degli anticorpi indicherà che quel virus, il carabiniere, l’ha avuto e sconfitto. Aveva fatto una promessa ai suoi figli: sarebbe tornato. E così è andata. Ha avuto paura di morire, certo. Quando ti manca l’aria, il terrore di non riuscire a riabbracciare la moglie e i bambini è tremendo. Lui ce l’ha fatta, i suoi otto colleghi meno fortunati no. Altri ancora oggi continuano a combattere. È il tributo dell’Arma.
Articolo a cura di Giuseppe De Lorenzo per il Giornale.it