Coronavirus, il militare che guidò i camion con i morti di Bergamo: «Quelle bare fanno parte di me»
Difficile dimenticare le immagini della notte tra il 18 e il 19 marzo scorso, quando un corteo di mezzi militari sfilò per le vie di Bergamo, trasportando — fuori regione, nei forni crematori di altre città — le salme delle persone decedute nella città lombarda a causa del coronavirus. «Quelle bare fanno parte di me, c’ho messo l’anima: vorrei un giorno conoscere i parenti di quei defunti», ha scritto in un lungo post su Facebook (che porta la data del 3 maggio, ndr) Tomaso Chessa, caporalmaggiore dell’Esercito che quella notte guidò uno di quei mezzi. Di origine sarda, Chessa ha affidato ai social i pensieri che lo hanno accompagnato in quello che per i defunti era l’ «ultimo viaggio».
«Il tuo carico (umano)»
Cosa ha significato essere alla guida di quel mezzo militare? «Tu guidi, scambi due chiacchere con il collega alla parte opposta della cabina», ha scritto. Fino a quando la routine viene interrotta: «Per un istante il silenzio rompe la tua routine, il tuo pensiero si posa su di loro, e realizzi che dentro quel camion non siamo in due, ma in sette…. cinque dei quali affrontano il loro ultimo viaggio… e sì…. l’ultimo». «Ti rendi conto – continua Chessa – di essere la persona sbagliata, o meglio, qualcuno doveva essere al posto tuo, ma purtroppo non può… tocca a te…. ed è lì che senti addosso quella grande responsabilità, qualcosa che ti preme dentro, ogni buca, ogni avvallamento sembra una mancanza di rispetto nei loro confronti… poi arrivi lì, alla fine del tuo viaggio, dove ti ritrovi ad abbandonare “il tuo carico”, oramai fa parte di te, come se ti togliessero una parte di cuore, ed è li che cerchi di capire l’identità del tuo compagno di viaggio… cosa difficilissima».
«Spero di conoscere tutti i parenti delle vittime»
Delle persone accompagnate — chiarisce — «l’unico dei quali sono riuscito a risalire all’identità è il Signor Guerra, classe 1938. Pagherei oro per conoscere tutti i parenti delle otto persone e potergli dire che nonostante il contesto non avrebbero potuto fare un viaggio migliore. La cosa che mi dispiace di più, nonostante questo — conclude la lettera — è che amici e familiari continuano a non rendersi conto che tutto questo non è uno scherzo, la gente muore, chi non muore soffre, facile dire qua non siamo a Bergamo… Bene, abbiate la coscienza e il buon senso di tutelare i nostri cari che hanno la fortuna di vivere in posti più sicuri, ma non dimenticate che sbagliare è un attimo». Un messaggio commovente, che si chiude con un appello finale: «Spero un giorno di poter conoscere i cari dei miei compagni del loro ultimo viaggio, ma se cosi non fosse sappiano che c’ho messo l’anima!».
Gori: «Un’immagine più grande di me»
A commentare una delle istantanee più drammatiche dell’emergenza coronavirus in Lombardia, era stato anche il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori: «L’immagine dei mezzi militari che escono dal nostro cimitero è stata e continua ad essere più grande di me, per quanto io faccia del mio meglio credo di non essere all’altezza, a livello empatico con i miei cittadini, di una cosa così», aveva detto durante la trasmissione Accordi & Disaccordi in onda su Nove. «Quando snoccioliamo le cifre non pensiamo che ogni persona, ogni numero corrisponde ad un lutto in una famiglia… Sono convinto di avere sbagliato nel non valutare la gravità della situazione. Non lo rifarei».
Redazione articolo a cura di Silvia Morosi per il Corriere della Sera