CONTRATTI STATALI: PROBABILE RINNOVO SLITTA IN PRIMAVERA. ECCO GLI OSTACOLI
(di Gianni Trovati) – La
riforma Brunetta, che dal 2010 avrebbe dovuto rivoluzionare la Pubblica
amministrazione, è inciampata sul nascere nel blocco dei rinnovi contrattuali,
introdotto proprio quell’anno dalla manovra estiva targata Tremonti per
raffreddare la febbre della finanza pubblica.
riforma Brunetta, che dal 2010 avrebbe dovuto rivoluzionare la Pubblica
amministrazione, è inciampata sul nascere nel blocco dei rinnovi contrattuali,
introdotto proprio quell’anno dalla manovra estiva targata Tremonti per
raffreddare la febbre della finanza pubblica.
«Valutazione», «meritocrazia» e
«semplificazione» sono state messe da parte in tutta fretta dopo aver
campeggiato nel dibattito pubblico per mesi, ma ora è il caso di rinfrescarsi
la memoria. Per una ragione semplice: la riforma è in vigore e il rinnovo dei
contratti che la manovra deve far ripartire come impone la Corte costituzionale
ne dovrà tenere conto. Con più di un problema, che comincerà a essere
affrontato già domani pomeriggio nella prima riunione all’Aran.
«semplificazione» sono state messe da parte in tutta fretta dopo aver
campeggiato nel dibattito pubblico per mesi, ma ora è il caso di rinfrescarsi
la memoria. Per una ragione semplice: la riforma è in vigore e il rinnovo dei
contratti che la manovra deve far ripartire come impone la Corte costituzionale
ne dovrà tenere conto. Con più di un problema, che comincerà a essere
affrontato già domani pomeriggio nella prima riunione all’Aran.
Il
punto di partenza, com’è ovvio dopo sei anni di buste paga congelate, sono i
soldi. Tutto lascia supporre che non siano molti, anche perché il Governo non
ha alcuna intenzione di recuperare anche solo in parte i mancati aumenti determinati
dal blocco. Nella sentenza 178/2015 la stessa Corte costituzionale ha “salvato”
il vecchio congelamento contrattuale (che escludeva recuperi sul passato),
bocciando solo l’idea che potesse ripetersi all’infinito sul presupposto di una
finanza pubblica che continua a essere fragile. Con un’inflazione vicina allo
zero, quindi, la dote non sarà enorme, al punto che le stime sono scese fino a
quota 3-400 milioni: spalmati in modo omogeneo su tutti, darebbero poco più di
10 euro lordi a testa al mese.
punto di partenza, com’è ovvio dopo sei anni di buste paga congelate, sono i
soldi. Tutto lascia supporre che non siano molti, anche perché il Governo non
ha alcuna intenzione di recuperare anche solo in parte i mancati aumenti determinati
dal blocco. Nella sentenza 178/2015 la stessa Corte costituzionale ha “salvato”
il vecchio congelamento contrattuale (che escludeva recuperi sul passato),
bocciando solo l’idea che potesse ripetersi all’infinito sul presupposto di una
finanza pubblica che continua a essere fragile. Con un’inflazione vicina allo
zero, quindi, la dote non sarà enorme, al punto che le stime sono scese fino a
quota 3-400 milioni: spalmati in modo omogeneo su tutti, darebbero poco più di
10 euro lordi a testa al mese.
Il
merito
Ma una distribuzione lineare delle risorse non è possibile. Proprio qui
interviene infatti la riforma Brunetta, che impone di destinare la «quota
prevalente» del trattamento accessorio alle performance individuali di ogni
dipendente, e di dividere l’organico di ogni ufficio in tre fasce di merito:
alla prima, composta dal 25% del personale, deve andare il 50% dei “premi”,
l’altro 50% deve andare alla seconda, in cui va collocato il 50% dei
dipendenti, mentre l’ultimo quarto del personale deve rinunciare a queste
somme. Ma chi dà i voti per assegnare ogni dipendente pubblico a ciascuna delle
tre fasce, e sulla base di quali parametri? Il meccanismo è tutto da costruire,
e trovare la quadra con la contrattazione integrativa non sarà semplice, soprattutto
se si parte da un rinnovo ultra-leggero sul piano degli importi.
merito
Ma una distribuzione lineare delle risorse non è possibile. Proprio qui
interviene infatti la riforma Brunetta, che impone di destinare la «quota
prevalente» del trattamento accessorio alle performance individuali di ogni
dipendente, e di dividere l’organico di ogni ufficio in tre fasce di merito:
alla prima, composta dal 25% del personale, deve andare il 50% dei “premi”,
l’altro 50% deve andare alla seconda, in cui va collocato il 50% dei
dipendenti, mentre l’ultimo quarto del personale deve rinunciare a queste
somme. Ma chi dà i voti per assegnare ogni dipendente pubblico a ciascuna delle
tre fasce, e sulla base di quali parametri? Il meccanismo è tutto da costruire,
e trovare la quadra con la contrattazione integrativa non sarà semplice, soprattutto
se si parte da un rinnovo ultra-leggero sul piano degli importi.
I
comparti
Ma c’è un altro problema, ancora più urgente perché va affrontato prima di
avviare qualsiasi trattativa. Il tema, al centro della riunione di domani, si
nasconde sotto l’etichetta tecnica di «riduzione dei comparti», ma può produrre
parecchie grane molto concrete. Anche in questo caso, tutto nasce dalla riforma
Brunetta, che nel tentativo di snellire le pratiche contrattuali e di sfoltire
il panorama delle sigle sindacali ha deciso di riunire in quattro grandi
comparti i 12 in cui è oggi diviso il pubblico impiego. Anche questo lavoro è
stato bloccato sul nascere dallo stop ai rinnovi contrattuali. Il 1° ottobre,
il ministro della Pa, Marianna Madia, ha scritto all’Aran ricordando che «per
rendere possibile la formale riapertura della contrattazione» è necessario
«dare tempestiva attuazione» alla nuova geografia dei comparti, anche
«valutando la percorribilità di soluzioni innovative» per «giungere presto a
un’intesa» con i sindacati.
comparti
Ma c’è un altro problema, ancora più urgente perché va affrontato prima di
avviare qualsiasi trattativa. Il tema, al centro della riunione di domani, si
nasconde sotto l’etichetta tecnica di «riduzione dei comparti», ma può produrre
parecchie grane molto concrete. Anche in questo caso, tutto nasce dalla riforma
Brunetta, che nel tentativo di snellire le pratiche contrattuali e di sfoltire
il panorama delle sigle sindacali ha deciso di riunire in quattro grandi
comparti i 12 in cui è oggi diviso il pubblico impiego. Anche questo lavoro è
stato bloccato sul nascere dallo stop ai rinnovi contrattuali. Il 1° ottobre,
il ministro della Pa, Marianna Madia, ha scritto all’Aran ricordando che «per
rendere possibile la formale riapertura della contrattazione» è necessario
«dare tempestiva attuazione» alla nuova geografia dei comparti, anche
«valutando la percorribilità di soluzioni innovative» per «giungere presto a
un’intesa» con i sindacati.
L’effetto
sugli stipendi
Di “innovazione” sembra esserci bisogno, perché il nodo è di quelli intricati.
Le ipotesi formulate a suo tempo, e rimaste pura accademia, prospetterebbero un
“compartone” in cui riunire tutte le amministrazioni statali, dai ministeri
alle agenzie fiscali fino a Inps, Aci e agli altri enti pubblici; un altro che
abbraccia per omogeneità di compiti Regioni e sanità; un terzo nel quale
rimarrebbero gli enti locali e un ultimo dedicato a scuola e università.
Passare dalla carta geografica a quella dei contratti, però, è complicato: nel
compartone statale, per esempio, confluirebbero realtà che oggi hanno
differenze enormi nella retribuzione media, spiegabili con le diverse
condizioni di lavoro che hanno costruito nei decenni storie contrattuali a sé:
le tabelle della Ragioneria generale dicono che si va dai 34.821 euro lordi
all’anno delle voci stipendiali medie di alcuni enti pubblici ai 22.977 dei
ministeri, passando per i 30.948 di Palazzo Chigi e i 24.043 delle agenzie
fiscali, e le differenze crescono se si conta anche l’accessorio. Come si fa a
scrivere regole comuni partendo da numeri così diversi? Con poche risorse sul
piatto, la “soluzione” potrebbe prevedere di lasciare tutto più o meno com’è
ora, utilizzando i prossimi rinnovi per avvicinare progressivamente le
condizioni dei diversi settori. In questo modo, però, i comparti oggi più
“ricchi” rischierebbero di trovarsi condannati a buste paga ferme per molti
anni.
sugli stipendi
Di “innovazione” sembra esserci bisogno, perché il nodo è di quelli intricati.
Le ipotesi formulate a suo tempo, e rimaste pura accademia, prospetterebbero un
“compartone” in cui riunire tutte le amministrazioni statali, dai ministeri
alle agenzie fiscali fino a Inps, Aci e agli altri enti pubblici; un altro che
abbraccia per omogeneità di compiti Regioni e sanità; un terzo nel quale
rimarrebbero gli enti locali e un ultimo dedicato a scuola e università.
Passare dalla carta geografica a quella dei contratti, però, è complicato: nel
compartone statale, per esempio, confluirebbero realtà che oggi hanno
differenze enormi nella retribuzione media, spiegabili con le diverse
condizioni di lavoro che hanno costruito nei decenni storie contrattuali a sé:
le tabelle della Ragioneria generale dicono che si va dai 34.821 euro lordi
all’anno delle voci stipendiali medie di alcuni enti pubblici ai 22.977 dei
ministeri, passando per i 30.948 di Palazzo Chigi e i 24.043 delle agenzie
fiscali, e le differenze crescono se si conta anche l’accessorio. Come si fa a
scrivere regole comuni partendo da numeri così diversi? Con poche risorse sul
piatto, la “soluzione” potrebbe prevedere di lasciare tutto più o meno com’è
ora, utilizzando i prossimi rinnovi per avvicinare progressivamente le
condizioni dei diversi settori. In questo modo, però, i comparti oggi più
“ricchi” rischierebbero di trovarsi condannati a buste paga ferme per molti
anni.
Sindacati
«in lotta»
Un po’ di flessibilità potrebbe essere garantita dalla divisione dei nuovi
comparti in “settori”, per «salvaguardare le peculiarità di istituti non
riconducibili a una regolamentazione contrattuale comune» come spiega la stessa
Madia nella lettera all’Aran. Questi settori, però, non tornerebbero utili a
chi volesse risolvere gattopardescamente l’altro problema, quello dei sindacati
che nei nuovi comparti non raggiungerebbero il numero minimo di tessere e di
voti per essere considerati rappresentativi e potersi dunque sedere al tavolo.
A Palazzo Chigi, dove lavorano 2.300 persone, l’ultimo contratto è stato
firmato da sette sigle, per i ministeri le trattative sono state condotte da
sei organizzazioni, stesso numero nei ministeri, mentre la situazione è ancora
più intricata negli enti locali e soprattutto negli enti pubblici non
economici. Per essere «rappresentativo», un sindacato deve raggiungere il tasso
del 5% nella media fra iscritti e voti nelle Rsu, ed è ovvio che se la base di
calcolo si allarga sale anche il numero di adesioni necessarie a superare la
soglia: i confederali non avrebbero problemi, ma per i sindacati che si
occupano di singole categorie il salto sarebbe spesso impossibile, e la sola
ipotesi di partire davvero con la riforma sta scaldando il clima con annunci di
battaglie e ricorsi.
«in lotta»
Un po’ di flessibilità potrebbe essere garantita dalla divisione dei nuovi
comparti in “settori”, per «salvaguardare le peculiarità di istituti non
riconducibili a una regolamentazione contrattuale comune» come spiega la stessa
Madia nella lettera all’Aran. Questi settori, però, non tornerebbero utili a
chi volesse risolvere gattopardescamente l’altro problema, quello dei sindacati
che nei nuovi comparti non raggiungerebbero il numero minimo di tessere e di
voti per essere considerati rappresentativi e potersi dunque sedere al tavolo.
A Palazzo Chigi, dove lavorano 2.300 persone, l’ultimo contratto è stato
firmato da sette sigle, per i ministeri le trattative sono state condotte da
sei organizzazioni, stesso numero nei ministeri, mentre la situazione è ancora
più intricata negli enti locali e soprattutto negli enti pubblici non
economici. Per essere «rappresentativo», un sindacato deve raggiungere il tasso
del 5% nella media fra iscritti e voti nelle Rsu, ed è ovvio che se la base di
calcolo si allarga sale anche il numero di adesioni necessarie a superare la
soglia: i confederali non avrebbero problemi, ma per i sindacati che si
occupano di singole categorie il salto sarebbe spesso impossibile, e la sola
ipotesi di partire davvero con la riforma sta scaldando il clima con annunci di
battaglie e ricorsi.
Il Sole24Ore