Sindacati Militari

Carabinieri, il Comando propone la pianificazione dei servizi a 7 giorni: “un passo indietro sui diritti?”

di Giuseppe La Fortuna – USMIA

Abbiamo lottato per avere il sindacato. E adesso?

Lo volevamo con forza. Lo abbiamo atteso, difeso, conquistato. Perché pensavamo che il sindacato sarebbe stato un salto in avanti: più incisivo, più libero, più capace di difendere chi ogni giorno fa il proprio dovere senza riserve.

E invece oggi ci ritroviamo con una polo sul tavolo e una programmazione bisettimanale dei servizi e dei riposi che diventa settimanale.
Sì, avete capito bene: mentre si discute – legittimamente – di una nuova maglietta per migliorare il comfort operativo, si tace su una proposta che riduce la programmazione dei servizi da 15 a 7 giorni.
Una maglietta in più, un diritto in meno. Nessun comunicato contrario. Nessuna presa di posizione netta.
È questa la rappresentanza che avevamo immaginato?


Da 15 a 7 giorni: la regressione mascherata da proposta

Fino ad oggi, la programmazione dei servizi e dei riposi per il personale dell’Arma dei Carabinieri era bisettimanale: una formula faticosamente ottenuta negli anni, che garantiva un minimo di prevedibilità, tutela della vita privata e possibilità di organizzazione familiare e personale. Ora, con la proposta avanzata durante l’ultimo incontro con lo Stato Maggiore, si chiede di ridurre questa programmazione a soli 7 giorni.

È bene chiarire cosa significa davvero questo cambiamento.
Una programmazione settimanale non è un vantaggio: è una diminuzione sostanziale della tutela del lavoratore. Significa avere meno anticipo sui propri turni, più incertezza, più stress gestionale. Significa non poter organizzare un fine settimana con i figli, non poter prenotare una visita medica, non poter pianificare una vita. È un passo indietro netto. E se verrà “compensato” da una generica promessa di un’indennità futura in un contratto ancora da scrivere, allora non si tratta di un miglioramento, ma di una svendita.

Eppure, nessuna voce si è alzata con la necessaria forza. Non si è letto, fino ad ora, alcun comunicato ufficiale di netta contrarietà. E durante la riunione, nessuna sigla sindacale ha fatto saltare il tavolo, come ci si sarebbe aspettati di fronte ad una proposta peggiorativa di tale portata.

A questo punto viene spontaneo chiedersi:
In quale altra amministrazione pubblica o privata si accetterebbe un arretramento delle condizioni lavorative senza una sollevazione? Dove mai si è visto che si cambia in peggio, e nessuno protesta?

Nel mondo del lavoro, il progresso si misura con i diritti che si consolidano, non con quelli che si dissolvono.
Ridurre la programmazione da 15 a 7 giorni non è una modernizzazione. È una retromarcia. E farlo passare in silenzio, senza opposizione, è un errore grave di rappresentanza.


Il COCER non avrebbe mai accettato

La Rappresentanza Militare – tanto criticata e piena di errori, sì – ma capace di dire “no” quando serviva, non avrebbe mai fatto passi indietro su conquiste strutturali.
Non avrebbe permesso che una maglietta polo, per quanto utile e sensata, diventasse il paravento di un peggioramento. Non avrebbe mai svenduto il calendario dei servizi per una promessa da contratto.

Oggi invece abbiamo una rappresentanza più attenta agli umori del Comando che alle condizioni reali del personale. Una rappresentanza che sembra preoccupata di non dispiacere, di non disturbare troppo. Che baratta il silenzio con la sopravvivenza.
Ma non è per questo che ci siamo battuti per ottenere il sindacato.


Tessere, numeri e compromessi: questa non è rappresentanza

La Corte Costituzionale ha dichiarato la rappresentanza militare superata. E allora? Chi la sostituisce deve essere migliore. Deve pretendere, non subire. Deve marcare il campo, non seguirlo. Invece i sindacati oggi inseguono l’Amministrazione. E lo fanno accecati dalle tessere, dimenticando che quelle stesse tessere si possono revocare entro ottobre. Il rispetto non si compra, si conquista. E chi non lo difende, non lo merita.

Se chi siede ai tavoli sindacali non ha il coraggio di dire no, allora è un problema serio. Perché la rappresentanza non può essere un fatto formale. Deve essere sostanza. Azione. Coraggio. Non si può parlare di progresso mentre si accettano compromessi al ribasso in silenzio.


Mai un passo indietro. Oggi invece si indietreggia

In anni di rappresentanza militare, con tutti i suoi limiti, non si è mai fatto un passo indietro così evidente. Anzi, spesso era l’Amministrazione a rincorrere la rappresentanza.
Oggi, invece, la sensazione è opposta: si rincorre il silenzio, si rincorre il quieto vivere, si rincorrono briciole mentre si perdono pilastri.

E questo fa male. Fa male a chi ci ha creduto. Fa male a chi continua a credere che un sindacato vero sia possibile.
E sì, lo dico senza retorica: oggi, un po’, mi vergogno.


Pretendere rispetto non è un optional

Il rispetto non si chiede per cortesia, si pretende con fermezza.
Chi indossa ogni giorno questa divisa, chi rinuncia alla propria vita privata per garantire sicurezza agli altri, non può accontentarsi delle briciole. Non può tollerare compromessi al ribasso, né accettare che il peggioramento delle condizioni di lavoro venga raccontato come progresso.

Pretendere di essere ascoltati, tutelati, rappresentati sul serio non è una pretesa: è un diritto.
Un diritto che abbiamo guadagnato sul campo, con sacrificio, dedizione e senso dello Stato.
E oggi, chi ha memoria di ciò che siamo stati, di ciò che abbiamo ottenuto, non può e non deve piegarsi. Il tempo dei sorrisi di circostanza è finito. È il momento della consapevolezza, della dignità, della verità.
Perché senza rispetto, non c’è rappresentanza.


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