Carabiniere ucciso, poliziotti indagati. ANM “Inaccettabili attacchi ai magistrati”
Francavilla Fontana: la cronaca di un dramma giudiziario e istituzionale
Giovedì scorso a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, si è consumata una tragedia che ha riacceso i riflettori sul difficile equilibrio tra sicurezza pubblica e giustizia. Il brigadiere capo dei Carabinieri Carlo Legrottaglie è stato ucciso a colpi di pistola da Michele Mastropietro, 59 anni. Qualche ora dopo, Mastropietro è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con due agenti della Polizia di Stato di Grottaglie.
La Procura di Taranto, come previsto dalla legge, ha aperto un’indagine e notificato avvisi di garanzia ai due poliziotti. Atto tecnico, non punitivo. Ma la polemica politica e sindacale è esplosa.
Il comunicato dell’ANM di Lecce: una risposta ferma e senza ambiguità
Riportiamo integralmente il comunicato ufficiale della Giunta Distrettuale dell’ANM di Lecce, che ha preso posizione in difesa dei magistrati tarantini:
«La Giunta Distrettuale dell’Anm di Lecce reputa né condivisibili né accettabili le valutazioni espresse su alcuni organi di stampa da parte di alcuni esponenti politici e dei rappresentanti di alcuni Sindacati della Polizia di Stato sull’operato dei Magistrati della Procura della Repubblica di Taranto, impegnati, in queste ore, in delicati accertamenti sulle circostanze che hanno immediatamente seguito l’uccisione del Brigadiere Capo dei Carabinieri Carlo Legrottaglie».
Il riferimento è alle polemiche per gli avvisi di garanzia notificati ai due poliziotti indagati dalla procura di Taranto per la morte in un conflitto a fuoco del 59enne Michele Mastropietro, ritenuto l’autore dell’omicidio, poche ore prima, del brigadiere capo Carlo Legrottaglie, giovedì a Francavilla Fontana.
Secondo l’Anm, «la natura degli accertamenti in corso impone la partecipazione ad essi, anche nel loro interesse, del personale del commissariato della Polizia di Stato di Grottaglie, coinvolto, suo malgrado, nel conflitto a fuoco nel quale ha perso la vita Michele Mastropietro».
«Nessuno di tali accertamenti può e deve essere letto come uno schiaffo alla realtà, alla logica e al lavoro di chi ogni giorno – prosegue la nota – rischia la pelle per proteggere i cittadini o come una manifestazione di confusione o di contraddizione o, addirittura, come il segno della volontà di criminalizzare il personale della Polizia di Stato di Grottaglie».
La giunta distrettuale esprime «sostegno, vicinanza, solidarietà, pieni e convinti, ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto impegnati nell’essenziale e delicato compito di accertare i fatti accaduti» e manifesta «sincero apprezzamento per le parole e per l’operato dei difensori di fiducia del personale della Polizia di Stato di Grottaglie, che, sin da subito e pubblicamente, hanno manifestato piena fiducia nell’operato dei magistrati».
Il Decreto Sicurezza non ha risolto il problema: solo un palliativo
Molti osservatori hanno evidenziato come il problema non risieda tanto nella magistratura, quanto nella cornice normativa ancora inadeguata.
Il tanto citato Decreto Sicurezza prevede un rimborso spese fino a 10.000 euro per ogni fase del procedimento penale a favore degli operatori delle forze dell’ordine coinvolti per l’uso delle armi in servizio.
Ma questo non è affatto risolutivo. È una toppa burocratica, che arriva tardi. Nel frattempo, l’agente o il carabiniere affronta spese legali, esposizione mediatica e stress psicologico in totale solitudine.
Il rimborso non è immediato, non copre tutti i costi effettivi, e soprattutto non offre alcuna tutela sostanziale durante le fasi critiche del procedimento.
Il problema di fondo: il Decreto Sicurezza non basta
Questo episodio non è solo una crisi mediatica: è il sintomo di un vuoto normativo che il cosiddetto Decreto Sicurezza non ha risolto.
Quando un pubblico ufficiale reagisce a una minaccia, finisce inevitabilmente coinvolto in un procedimento giudiziario in qualità di indagato, anche se solo per legittima difesa o uso legittimo delle armi. Questo non per sfiducia, ma per garantire terzietà e rispetto delle regole del giusto processo.
Ma c’è un paradosso: la tutela processuale di chi ha agito nell’interesse dello Stato grava, ancora oggi, sul singolo individuo e sul suo legale di fiducia.
Una riforma necessaria: lo Stato parte attiva nella tutela dei suoi servitori
Finché la difesa legale degli operatori delle forze dell’ordine sarà affidata a iniziativa privata, il sistema non potrà dirsi né equo né moderno.
Serve una riforma strutturale: coinvolgere direttamente lo Stato come parte nel procedimento, in qualità di tutore dell’interesse pubblico rappresentato da chi agisce per la sicurezza collettiva.
Solo così si potrà evitare che poliziotti e carabinieri, già provati dai rischi operativi, vengano lasciati soli anche nella fase giudiziaria. E solo così si potrà tutelare la serenità della magistratura, evitando pressioni indebite e strumentalizzazioni.
Magistratura e forze dell’ordine: due pilastri, non due fronti
L’episodio di Taranto non deve trasformarsi in un terreno di scontro tra magistratura e forze di polizia. I giudici non sono nemici dei tutori dell’ordine, sono garanti della legalità. Le forze dell’ordine non devono sentirsi sotto accusa, ma parte di un processo trasparente e giusto.
Serve una cultura della legalità condivisa, non polarizzazioni tossiche. Serve uno Stato che non abbandoni chi lo difende, ma ne tuteli i diritti fino in fondo, anche nelle aule di giustizia.
Contraddizioni, slogan e silenzi: quando la politica cavalca il vuoto normativo
La tragica morte del brigadiere Legrottaglie e l’indagine sui due poliziotti non hanno soltanto riacceso il dibattito sulla giustizia: hanno svelato, ancora una volta, le fragilità ipocrite di una politica che grida al fianco delle divise ma tace quando c’è da legiferare davvero. Mentre i partiti promettono di “cambiare la legge”, resta il sospetto che questa indignazione sia più da palcoscenico che da Parlamento. Nessuna proposta concreta, nessuna riforma strutturale. Solo hashtag e solidarietà a mezzo stampa, utili a raccogliere consenso, non a risolvere problemi.
Nel frattempo, magistrati bersagliati e poliziotti soli devono muoversi tra accuse incrociate, silenzi istituzionali e norme lacunose, mentre il dibattito si alimenta di slogan e omissioni. Il rischio? Che ogni conflitto a fuoco si trasformi in un caso mediatico da sfruttare, anziché in un fatto da chiarire con strumenti giusti, e con lo Stato finalmente presente in aula, non solo in divisa.
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