ABUSI IN DIVISA, DA OGGI SI PUÒ CHIEDERE AIUTO. ISTITUITO UN NUMERO VERDE
Pubblichiamo l’articolo del Manifesto del 18
gennaio 2014.
gennaio 2014.
Cosa può fare un cittadino o i suoi familiari, oppure
dei testimoni, di fronte a un abuso da parte di uomini in divisa? Sì,
certo a cose fatte si può sempre cercare giustizia in un aula di tribunale,
anche se i processi in questi casi sono un calvario, una lotta impari,
destinata a durare anni e con buone probabilità di vedere umiliata
la speranza di accertare la verità. Adesso però una cosa la si può fare
subito. Chiamare il numero verde 800.588605. Si tratta di un punto di appoggio
e primo intervento messo a disposizione da Acad, Associazione
contro gli abusi in divisa Acad. È la prima volta che una simile iniziativa
viene sperimentata in Italia e deve ancora crescere. È presentata
ieri all’auditorium di piazza Libertà di Bergamo. C’erano 15 familiari delle
vittime, tra questi anche Ilaria Cucchi, Lucia Uva e Domenica
Ferrulli.
dei testimoni, di fronte a un abuso da parte di uomini in divisa? Sì,
certo a cose fatte si può sempre cercare giustizia in un aula di tribunale,
anche se i processi in questi casi sono un calvario, una lotta impari,
destinata a durare anni e con buone probabilità di vedere umiliata
la speranza di accertare la verità. Adesso però una cosa la si può fare
subito. Chiamare il numero verde 800.588605. Si tratta di un punto di appoggio
e primo intervento messo a disposizione da Acad, Associazione
contro gli abusi in divisa Acad. È la prima volta che una simile iniziativa
viene sperimentata in Italia e deve ancora crescere. È presentata
ieri all’auditorium di piazza Libertà di Bergamo. C’erano 15 familiari delle
vittime, tra questi anche Ilaria Cucchi, Lucia Uva e Domenica
Ferrulli.
Grazie alla loro tenacia e a tanto coraggio le loro storie
hanno fatto breccia sui media, anche se non hanno mai trovato veramente giustizia.
Ma sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che non può essere liquidato
da parte della politica e delle forze dell’ordine facendo ricorso
all’abusata categoria delle «poche mele marce». L’associazione Acad
è nata lo scorso marzo. E’ il frutto di un lungo lavoro da parte di attivisti
e semplici cittadini indignati dopo il caso di Federico Aldrovandi.
Hanno cominciato a seguire i processi, hanno accumulato
e propagandato materiale, film, libri, documenti. E così hanno
conosciuto le famiglie delle vittime con cui hanno costruito un rapporto di
vicinanza umana ed emotiva. Adesso mettono a disposizione questo
numero verde. Il primo obiettivo è quello di non fare sentire solo chi
è convinto di aver subito un abuso: potrebbe capitare a chiunque.
«Il numero testimonia che tante persone si trovano o si sono trovate
in queste condizioni», raccontano gli attivisti di Acad. L’idea
è quella di combattere allo stesso tempo il senso di impotenza e il
muro di paura e di omertà che circonda questi casi. Il numero è a
disposizione non solo di chi subisce ma anche dei testimoni di soprusi polizieschi.
E’ uno strumento che potrebbe servire a far emergere casi mai denunciati
e del tutto sconosciuti. Infine ha lo scopo di fare rete, di mettere in
contatto le vittime fra loro, di condividere esperienze e mettere
a disposizione supporto prima di tutto legale anche grazie alla lunga
esperienza e ai contatti raccolti nell’ambito della lotta alla repressione
dei movimenti. Acad, spiegano, è solo un tassello nell’ambito di
un’azione plurale. «Dall’iniziativa di questa sera parte un lavoro che deve
interagire insieme ad altri soggetti sociali ed associazioni che magari
hanno più capacità di mettere in discussione anche le leggi vigenti», dice
Italo Di Sabato che aderisce ad Acad e fa parte dell’Osservatorio sulla
repressione.
hanno fatto breccia sui media, anche se non hanno mai trovato veramente giustizia.
Ma sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che non può essere liquidato
da parte della politica e delle forze dell’ordine facendo ricorso
all’abusata categoria delle «poche mele marce». L’associazione Acad
è nata lo scorso marzo. E’ il frutto di un lungo lavoro da parte di attivisti
e semplici cittadini indignati dopo il caso di Federico Aldrovandi.
Hanno cominciato a seguire i processi, hanno accumulato
e propagandato materiale, film, libri, documenti. E così hanno
conosciuto le famiglie delle vittime con cui hanno costruito un rapporto di
vicinanza umana ed emotiva. Adesso mettono a disposizione questo
numero verde. Il primo obiettivo è quello di non fare sentire solo chi
è convinto di aver subito un abuso: potrebbe capitare a chiunque.
«Il numero testimonia che tante persone si trovano o si sono trovate
in queste condizioni», raccontano gli attivisti di Acad. L’idea
è quella di combattere allo stesso tempo il senso di impotenza e il
muro di paura e di omertà che circonda questi casi. Il numero è a
disposizione non solo di chi subisce ma anche dei testimoni di soprusi polizieschi.
E’ uno strumento che potrebbe servire a far emergere casi mai denunciati
e del tutto sconosciuti. Infine ha lo scopo di fare rete, di mettere in
contatto le vittime fra loro, di condividere esperienze e mettere
a disposizione supporto prima di tutto legale anche grazie alla lunga
esperienza e ai contatti raccolti nell’ambito della lotta alla repressione
dei movimenti. Acad, spiegano, è solo un tassello nell’ambito di
un’azione plurale. «Dall’iniziativa di questa sera parte un lavoro che deve
interagire insieme ad altri soggetti sociali ed associazioni che magari
hanno più capacità di mettere in discussione anche le leggi vigenti», dice
Italo Di Sabato che aderisce ad Acad e fa parte dell’Osservatorio sulla
repressione.
La ragione fondante e prioritaria è dare voce alle
vittime. «Acad e il numero verde devono essere uno strumento per dare
a loro la possibilità di farsi sentire». Ieri, oltre a Ilaria
Cucci, Lucia Uva e Domenica Ferrulli, hanno raccontato le loro storie
anche Mariella Zotti, moglie di Vito Daniele, morto nel 2008 durante un fermo
in autostrada, Carmela Brunetti, sorella di Stefano, morto nel 2008
a seguito di un arresto, Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovani,
morto nel 2009 nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Valle della Lucania
dopo essere stato legato al letto per ore, Cira Antignano, madre di Daniele
Franceschi, morto in un carcere in Francia nel 2010, Raimonda Pusceddu,
madre di Stefano Gugliotta, picchiato a Roma nel 2010, Filippo Narducci,
picchiato a Cesena nel 2010, Claudia Budroni, sorella di Dino, ucciso da
un colpo di pistola sul raccordo anulare di Roma nel 2011 e Osvaldo
Casalnuovo, padre di Massimo Casalnuovo. La storia di Massimo è stata
raccontata anche da un documentario di Dario Tepedino. Massimo
è morto il 20 agosto 2011, appena uscito dall’officina in cui lavorava
con il padre a Buonabitacolo (Salerno). Guidava un motorino senza
casco. A un posto di blocco due carabinieri dicono di avergli intimato
l’alt ma che lui avrebbe accelerato per poi cadere. Due testimoni invece
sostengono che è stato uno dei due carabiniere a dare un calcio
al motorino facendolo cadere e uccidendolo.
vittime. «Acad e il numero verde devono essere uno strumento per dare
a loro la possibilità di farsi sentire». Ieri, oltre a Ilaria
Cucci, Lucia Uva e Domenica Ferrulli, hanno raccontato le loro storie
anche Mariella Zotti, moglie di Vito Daniele, morto nel 2008 durante un fermo
in autostrada, Carmela Brunetti, sorella di Stefano, morto nel 2008
a seguito di un arresto, Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovani,
morto nel 2009 nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Valle della Lucania
dopo essere stato legato al letto per ore, Cira Antignano, madre di Daniele
Franceschi, morto in un carcere in Francia nel 2010, Raimonda Pusceddu,
madre di Stefano Gugliotta, picchiato a Roma nel 2010, Filippo Narducci,
picchiato a Cesena nel 2010, Claudia Budroni, sorella di Dino, ucciso da
un colpo di pistola sul raccordo anulare di Roma nel 2011 e Osvaldo
Casalnuovo, padre di Massimo Casalnuovo. La storia di Massimo è stata
raccontata anche da un documentario di Dario Tepedino. Massimo
è morto il 20 agosto 2011, appena uscito dall’officina in cui lavorava
con il padre a Buonabitacolo (Salerno). Guidava un motorino senza
casco. A un posto di blocco due carabinieri dicono di avergli intimato
l’alt ma che lui avrebbe accelerato per poi cadere. Due testimoni invece
sostengono che è stato uno dei due carabiniere a dare un calcio
al motorino facendolo cadere e uccidendolo.