Difesa

ABBIAMO MILITARI OVUNQUE MA NON DOVE SERVONO A NOI

Abbiamo 750 militari in Afghanistan, 1100 in Libano, 550 in Kosovo e presto arriveremo a dispiegarne 1300 in Iraq. E’ quanto scrive in questo articolo per il Giornale.it Gian Micalessin. In Libia – scrigno dei nostri interessi strategici e roccaforte di uno Stato Islamico distante meno di 500 chilometri da noi – non manderemo un solo fantaccino.

Il nostro posto nell’ex-colonia lo prenderanno i caschi blu del Nepal. E così chiederemo a loro, in caso di bisogno, di difendere uno stabilimento di Mellitah costato 7 miliardi o quel gasdotto Greenstream che garantisce il 12 per cento dei consumi italiani di gas. La paradossale marcia indietro del governo Renzi è solo la punta d’iceberg dell’inconcludente approccio con cui affrontiamo da due anni la crisi libica. Una crisi potenzialmente esiziale non solo per la nostra economia, ma anche per la gestione dei flussi migratori e la minaccia alla sicurezza esercitata da uno Stato Islamico presente non più solo a Sirte, ma anche attorno a Tripoli. Per comprendere l’irrilevanza del nostro governo basta esaminare le decisioni della Conferenza di Vienna a cui partecipavano ieri, oltre a Paolo Gentiloni, i ministri degli esteri di una quindicina di paesi impegnati ad appoggiare il governo di «unità nazionale» guidato dal premier Fayez Serraj.

In quella conferenza l’Italia svolge ufficialmente un ruolo guida al fianco degli Stati Uniti. Ma è un ruolo puramente formale. E lo dimostra l’aleatorietà, ma meglio sarebbe dire la subalternità, di un esecutivo passato, in pochi mesi, dalle elucubrazioni sull’invio di 5mila uomini a quelle sui «forse 900» fino allo zero assoluto. In verità a dettare i termini dell’impegno italiano ci pensano Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, ovvero gli stessi che nel 2011 cercarono di estrometterci dallo scacchiere libico. Non a caso, mentre l’Italia annuncia il proprio disimpegno, la conferenza di Vienna annuncia la fine dell’embargo sulle forniture di armi alla Libia in vista della formazione di un nuovo esercito agli ordini di Serraj. La formazione di quell’esercito sarebbe dovuta spettare all’Italia che avrebbe così potuto influenzare direttamente le attività dei suoi comandanti svolgendo un ruolo non solo politico, ma anche strategico.

Ma a darci il benservito su quel fronte ci ha pensato lo stesso premier Serraj. Per capirlo basta leggersi l’articolo pubblicato a sua firma non su un quotidiano italiano – come sarebbe naturale se fossimo noi la nazione guida – ma sul Daily Telegraph, ovvero sul quotidiano più vicino a quel governo britannico che continua a inviare in Libia forze speciali. Un articolo in cui invita amici ed alleati a rinunciare a qualsiasi d’intervento contro lo Stato Islamico per concentrarsi invece sul rafforzamento del governo e dell’esercito di unità nazionale. Un invito a cui Renzi obbedisce azzerando la nostra presenza militare. Quel placido assenso è la premessa per l’esclusione da tutta la partita libica. Se infatti da una parte è chiaro che non saremo noi a riarmare Tripoli incassando fruttuose commesse è anche evidente che la formazione di un esercito nazionale libico non può venir lasciata ai nepalesi. Qualcun altro, quindi, svolgerà, al nostro posto, le funzioni di grande consigliere militare» del governo Farraj e della Tripolitania. Ancor più imbarazzante è la nostra assenza su quel fronte cirenaico dove la Francia non fa mistero di aver scelto l’alleanza con l’Egitto e l’esercito di Khalifa Haftar per combattere il Califfato. Renzi, dopo un iniziale avvicinamento al Cairo, sembra in balia di quella deriva autolesionista, tanto cara alla sinistra, che ci spinge, in nome d’improbabili verità sul caso Regeni, a trattare l’Egitto alla stregua di un potenziale nemico.

E così – mentre le forze speciali americane, francesi e inglesi bivaccano nelle basi di un generale Haftar sicuramente manovrato dal Cairo, ma anche comandante dell’unica formazione armata in grado di affrontare lo Stato Islamico, noi lavoriamo per emarginarlo. E così assenti in Tripolitania e stranieri in Cirenaica ci riduciamo al ruolo di «potenza» di facciata. Una «potenza» protagonista di conferenze e incontri internazionali, ma completamente assente su quel terreno dove i nostri concorrenti decidono affari e strategie.

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