Assenze pagate e segreti rivelati: carabiniere condannato dalla Corte dei conti
Danno da emolumenti retributivi indebitamente percepiti, danno da disservizio e danno all’immagine per assenteismo fraudolento: queste le accuse per cui un carabiniere in servizio al Nucleo tutela patrimonio culturale di Perugia all’epoca dei fatti contestati, è stato condannato dalla Corte dei conti al pagamento di 5.656, 82 euro in favore del Comando legione dei carabinieri dell’Umbria, più gli interessi e le spese per oltre 500 euro.
Questa la sentenza firmata dal presidente Piero Carlo Floreani e dai consiglieri Acheropita Mondera e Rosalba Di Giulio, dopo la richiesta di condanna avanzata dal procuratore contabile Francesco Magno che aveva chiesto quasi 19mila euro di danni da rifondere all’Arma.
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Il sostituto procuratore generale, infatti, ha accusato il militare anche di danno da mercimonio della qualifica rivestita, contestato in relazione a un procedimento penale attualmente pendente davanti al tribunale di Perugia.
La procura contabile ha ricostruito alla corte il processo che vede il luogotenente accusato di «numerosi capi di imputazione: reati corruttivi e contro la fede pubblica, utilizzazione della banca dati dell’Arma a fini non istituzionali, rivelazione di segreti d’ufficio e assenteismo fraudolento».
La storia è quella delle «rivalità commerciali esistente tra alcuni soggetti operanti nel settore del trasporto marittimo in Sicilia» con l’aiuto – «attraverso un’attività diffamatoria e confezionando un esposto anonimo» – che il carabiniere avrebbe dato a uno dei contendenti, «a fronte della promessa di assumere» una sua parente. Una storia complessa, arrivata da Palermo e ora in discussione a Perugia, dopo il rinvio a giudizio di tre anni fa. Intanto la procura contabile, a marzo scorso, ha convenuto in giudizio il carabiniere che, con l’avvocato Nicola Di Mario, ha ribadito con forza l’insussistenza della propria responsabilità sul caso.
La Corte dei conti, nella sentenza appena pubblicata, ha riassunto la telefonata che, per la procura, sarebbe stata la prova del mercimonio ma «ai fini della dimostrazione del danno, il collegio ritiene che da tale intercettazione emerga con certezza l’impegno (dell’imprenditore) a procurare un’offerta di lavoro» alla parente del carabiniere «ma non compare – si legge ancora in sentenza – con altrettanta evidenza la volontà di quest’ultimo di compiere atti in violazione dei propri doveri di servizi». Da qui la decisione di non riconoscere «la natura di componente di danno erariale» per cui invece la procura aveva chiesto quasi seimila euro di condanna.
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Le altre accuse si riferivano a quattro giorni di lavoro nel 2016 in cui – secondo le accuse considerate provate dai giudici – il militare non avrebbe prestato effettivamente servizio per impegni personali, con tanto di «indebita erogazione di trattamento di missione (29,11 euro) e costo per l’indebito utilizzo dell’autovettura di servizio (18,70 euro)» per un viaggio nel giorno del terremoto che invece non sarebbe mai avvenuto.
Una modalità, quella dell’assenteismo che la Corte racconta come «disinvolto comportamento rispetto all’orario di servizio», che è stata confermata dai colleghi e dallo stesso carabiniere parlando di «errore incolpevole», consolidando l’idea di danno per le giornate che risultavano di lavoro e per cui quindi il carabiniere ha percepito scorrettamente una retribuzione.
Con la richiesta della procura allora accolta dalla Corte. L’ultima accusa, il danno da disservizio, «individuato dalla Procura nello sviamento della pubblica funzione e nella violazione dei doveri d’ufficio, che hanno reso solo apparente il servizio prestato dal militare, senza alcuna utilità per la pubblica amministrazione». In particolare, la procura ha rilevato «l’accesso indebito alla banda dati dell’Arma, la divulgazione di informazioni sensibili e riservate, l’esercizio illecito di pubbliche funzioni» (oggetto del procedimento penale) che per la Corte «comporta sicuramente un danno da disservizio».
Ma la pretesa – oltre 11.700 euro – della procura si giudica «eccessiva» considerata l’esiguità degli accessi “personali” allo Sdi e le rivelazioni riservate: da qui il danno riconosciuto ma che ai giudici «appare equo quantificare» in cinquemila euro.
ilmessaggero.it