Avvocato Militare

Carabiniere beccato da un superiore a “tirare cocaina” in ufficio. Cassazione conferma la sentenza ma revoca l’interdizione dai pubblici uffici

(di Avv. Umberto Lanzo)

La Corte di Cassazione ha recentemente chiarito un importante principio in materia di pene accessorie all’interno di una sentenza che potrebbe rappresentare un significativo precedente giurisprudenziale. Con la sentenza n. 3847/2025, la Seconda Sezione Penale ha annullato parzialmente una decisione della Corte d’Appello di Perugia, eliminando la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici impropriamente applicata.

I fatti: un carabiniere trovato con cocaina in ufficio

Il caso riguarda un militare dell’Arma dei Carabinieri, sorpreso da un luogotenente, mentre si trovava nel proprio ufficio nella caserma di Giulianova in una posizione che faceva sospettare stesse per inalare della cocaina. Come riportato nella sentenza, il luogotenente trovò il militare “con il capo chinato in posizione obliqua, quasi a toccare la scrivania tenendo il suo dito indice a chiusura di una delle narici”, posizione tipica di chi si appresta ad assumere cocaina.

La vicenda si complica ulteriormente perché gli inquirenti hanno ritenuto che la sostanza in possesso dell’imputato fosse stata sottratta da un precedente sequestro effettuato a carico di M. e B. C., come dimostrato dalle analisi che avevano riscontrato “la presenza della stessa percentuale di principio attivo e sostanze volatili estraibili” in entrambi i campioni.

Le difese dell’imputato respinte dalla Corte

La difesa ha insistito sulla contraddittorietà della motivazione relativamente alla svalutazione delle analisi delle urine, eseguite due giorni dopo il presunto consumo di cocaina. Secondo la difesa, l’assenza di tracce di sostanza stupefacente avrebbe dovuto escludere la responsabilità dell’imputato.

Ulteriori motivi di ricorso hanno riguardato:

  • La discrepanza tra i rapporti di prova relativi alla cocaina sequestrata, che avrebbero dimostrato l’assenza di correlazione tra i reperti.
  • L’errata valutazione del narcotest, che mostrava colorazioni differenti tra la cocaina sequestrata all’imputato e quella custodita nell’armadio metallico.
  • L’inesistenza di elementi probatori certi circa la disponibilità della chiave dell’armadio metallico, da cui la sostanza sarebbe stata sottratta.

La Cassazione ha respinto tutte queste argomentazioni, ritenendole “mere doglianze di fatto, tutte finalizzate a prefigurare una rivalutazione alternativa delle fonti probatorie, estranee al sindacato di legittimità”.

Riguardo alle analisi negative delle urine, la Corte ha ritenuto plausibile la spiegazione che “l’imputato fosse stato sorpreso dal G. nell’atto di iniziare ad inalare la sostanza bianca che aveva riposto su un foglio di carta, senza riuscirci per l’ingresso del superiore nella stanza”.

Quanto all’accesso all’armadio contenente la droga sequestrata, i giudici hanno rilevato che “tali chiavi in più occasioni erano rimaste sulla scrivania del G. o inserite nella toppa della serratura dell’armadio”, permettendo potenzialmente all’imputato di appropriarsene temporaneamente.

L’errore sulla pena accessoria

Il punto decisivo accolto dalla Corte di Cassazione riguarda l’applicazione della pena accessoria. La sentenza afferma con chiarezza che:

“Poiché la durata della pena principale applicata al V. è inferiore ai tre anni di reclusione (nel caso di specie anni due mesi otto di reclusione), non può essere applicata né la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici che l’art. 29 cod. pen. prevede per reati che abbiano dato luogo a condanna a pena non inferiore ai tre anni di reclusione, né tantomeno quella dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, applicata dalla Corte territoriale, normativamente prevista per reati per i quali sia stata irrogata una pena non inferiore a cinque anni di reclusione.”

La violazione del divieto di reformatio in peius

Un altro aspetto problematico, sollevato dalla difesa e accolto implicitamente dalla Cassazione, riguardava la violazione del divieto di reformatio in peius. Come evidenziato nel nono motivo di ricorso, “il Giudice dell’udienza preliminare aveva condannato l’imputato alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque e la Corte territoriale – in assenza dell’impugnazione del pubblico ministero – aveva irrogato la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici”.

L’importanza della decisione nella giurisprudenza

La Corte ha quindi disposto “l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente all’irrogazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici, che elimina, con declaratoria di inammissibilità nel resto del ricorso”.

Questa sentenza si inserisce nel filone giurisprudenziale che delinea i limiti del potere sanzionatorio in materia di pene accessorie e riafferma il principio di legalità nella loro applicazione, ribadendo che:

  1. L’interdizione temporanea dai pubblici uffici può essere applicata solo per condanne non inferiori a tre anni
  2. L’interdizione perpetua dai pubblici uffici può essere applicata solo per condanne non inferiori a cinque anni
  3. Il principio del divieto di reformatio in peius deve essere rispettato anche nell’applicazione delle pene accessorie

La Corte di Cassazione ha ribadito che il proprio ruolo non consiste nel riesaminare i fatti, ma nel garantire la correttezza giuridica e la coerenza logica delle decisioni dei giudici di merito.

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