WhatsApp e disciplina militare: quando un messaggio può costarti caro
(di Avv. Umberto Lanzo)
La sanzione disciplinare inflitta a un militare per un messaggio WhatsApp dal contenuto ritenuto diffamatorio nei confronti del proprio ambiente di lavoro è legittima. Secondo la sentenza del TAR, l’amministrazione ha il diritto di utilizzare il contenuto della comunicazione, poiché è stata la stessa destinataria del messaggio a renderlo noto.
Il contesto della vicenda
Il militare in questione aveva inviato un messaggio WhatsApp a una collega, esprimendo opinioni negative e generalizzate sulla struttura di servizio di appartenenza. La collega, ritenendo il contenuto inappropriato, ha segnalato la conversazione all’amministrazione, che ha successivamente avviato un procedimento disciplinare nei confronti dell’autore del messaggio.
Il principio giuridico e il precedente della Cassazione
Secondo quanto riportato dalla sentenza del TAR, la Corte di Cassazione si è più volte espressa sulla natura diffamatoria delle dichiarazioni fatte in contesti privati, come chat o email, all’interno di un rapporto lavorativo. La giurisprudenza prevalente stabilisce che la diffamazione non richiede necessariamente la diffusione pubblica, ma può configurarsi anche attraverso comunicazioni private, purché il contenuto abbia carattere lesivo e denigratorio.
In tal senso, la Cassazione ha più volte ribadito che la riservatezza della corrispondenza non esclude la responsabilità per diffamazione, a meno che il contenuto del messaggio non sia stato acquisito in modo illecito. Tra le pronunce di riferimento si segnalano Cass. 20 settembre 2016, n. 18404 e Cass. 6 settembre 2018, n. 21719, che hanno stabilito che l’offesa al datore di lavoro o all’ambiente di lavoro tramite chat privata può costituire motivo di licenziamento o sanzione disciplinare.
Libertà di espressione e confini giuridici
Un aspetto centrale del dibattito riguarda il bilanciamento tra libertà di espressione e tutela dell’onorabilità dell’amministrazione. La Costituzione italiana tutela la libertà di pensiero (art. 21), ma essa non può giustificare affermazioni diffamatorie o lesive della reputazione di un’istituzione pubblica.
Secondo il Garante per la Protezione dei Dati Personali, la riservatezza di una comunicazione non implica che il destinatario sia obbligato a mantenerne il contenuto segreto, soprattutto se esso contiene elementi offensivi o diffamatori. Questo principio è stato ribadito anche dalla Cassazione Penale, Sez. V, 26 settembre 2014, n. 40022, che ha chiarito come la divulgazione da parte di un interlocutore non costituisca violazione della privacy.
Il ruolo dell’amministrazione e le conseguenze disciplinari
Nel caso specifico, una volta che il contenuto del messaggio WhatsApp è stato reso noto dall’interlocutrice, l’amministrazione non poteva ignorarlo. La normativa di riferimento, in particolare l’art. 748, comma 5, lettera b) del d.P.R. n. 90/2010, prevede che i militari abbiano l’obbligo di comunicare eventuali situazioni che possano ledere la disciplina e il prestigio dell’amministrazione.
Di conseguenza, la decisione dell’amministrazione di adottare una sanzione disciplinare è risultata conforme ai principi giuridici consolidati e alle disposizioni normative vigenti. Questo caso rappresenta un precedente significativo per tutti gli appartenenti alle Forze Armate e alle forze di polizia, richiamando l’attenzione sulla necessità di un uso responsabile delle piattaforme di messaggistica privata.
Conclusione
Per questo motivo, è sempre consigliabile massima prudenza nella comunicazione digitale. Il confine tra una critica legittima e una condotta potenzialmente sanzionabile è sottile, e le conseguenze possono essere molto serie. Evitare la diffusione di messaggi che possano screditare l’amministrazione di appartenenza è una scelta saggia. Mantenere un basso profilo sui social e nelle chat private può scongiurare inutili traversie giudiziarie e garantire una carriera senza ostacoli.
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